Il Grand Old Party si è definitivamente messo nelle mani di Donald Trump, dei suoi eccessi e della sua dirompenza mediatica. Oggi si conclude la convention repubblicana a Cleveland e i delegati si sono espressi a maggioranza per il tycoon, che ha sfondato quota 1.725 voti, quando ne bastavano 1.237 per ottenere la candidatura. Eppure - hanno sottolineato gli analisti politici- i voti per gli altri candidati sono stati 721, la maggiore espressione di dissenso all’interno del partito repubblicano dal 1976, anno in cui i conservatori si divisero su Gerard Ford, che prevalse con 1187 voti contro i 1070 di Ronald Reagan. Quella dell’Ohio è stata una convention sui generis, con pochi volti di politici e la passerella offerta invece alla famiglia Trump al gran completo, tra la gaffe del discorso della moglie Melania - copiato da quello di Michelle alla convention democratica del 2008 - fino alla scelta di lasciare al figlio Donald Trump jr., delegato di New York, l’onore dell’incoronazione pubblica del padre. The Donald ha scelto per sè un’immagine patinata, con entrate in scena come i wrestler sul ring e il motto di reaganiana memoria «Make America great again». Filo conduttore, unico che ha veramente scaldato e unito la platea, è stato l’attacco frontale alla candidata Hillary Clinton, con il governatore del New Jersey Chris Christie che ha dato il via a un coro che scandiva «Lock her up - arrestatela», puntando sull’ormai classico scandalo mailgate e sulla gestione della coalizione Nato in Iraq e Libia.L’attesa maggiore, ora, è per i sondaggi: la speranza repubblicana è nel bounce, il rimbalzo della post-convention, che gonfierebbe le vele di Trump dandogli il giusto slancio per la seconda parte della campagna elettorale - quella da candidato presidente - in attesa del contrattacco democratico. Se le ultime rilevazioni, infatti, promettevano un testa a testa stretto tra Donald e Hillary, che pagava dazio dopo il report dell’Fbi sulla sua negligente gestione delle comunicazioni ufficiali, gli ultimi dati sono tornati ad allargare la forbice in favore della candidata democratica. Secondo il New York Times, «La possibilità che la Clinton perda è pari a quella di un giocatore dell’Nba che sbaglia un tiro libero». Le ultime previsioni del quotidiano, elaborate Stato per Stato, danno Hillary in vantaggio con il 76%, forte del favore di alcuni dei più importanti swing States, gli stati “oscillanti” senza una maggioranza netta e decisivi nella vittoria finale. L’unica guerra di posizione che Hillary sembra aver già vinto è quella con l’elettorato femminile. Complici più le intemperanze lessicali di Trump che la verve comunicativa di Hillary, il 56% delle donne americane afferma di sostenere la candidata dem, contro il 36% in favore del tycoon.In attesa che i riflettori si spengano sul palco di Cleveland, i democratici preparano invece la loro convention. Tra una settimana Philadelphia accoglierà Hillary, che punterà all’incoronazione definitiva con i voti dei 4.769 delegati dem, sperando nella maggioranza più ampia possibile. A differenza dei repubblicani, Clinton punta sui volti più scintillanti dell’ultima amministrazione, con l’attuale First Lady Michelle Obama ad aprire il dibattito. A seguire, lo sconfitto Bernie Sanders, l’attuale presidente Barak Obama e l’immancabile marito Bill, abilissimo nel tenersi in disparte per non rischiare di offuscare mediaticamente la moglie e ora pronto a dare fuoco alle polveri. Philadelphia sarà anche l’occasione per scoprire l’ultima carta in mano ai democratici: Hillary non ha ancora sciolto la riserva sul nome del suo candidato vice e la scelta potrebbe essere più determinante che mai nel rinforzare la sua presa sull’elettorato. Da politica prudente quale si è dimostrata, cerca un profilo capace di gestire la sicurezza interna nazionale ma di esperienza, in grado di governare gli equilibri politici e la rosa di nomi con queste caratteristiche sembra ridotta all’attuale Ministro per lo sviluppo Julian Castro e alla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. In lizza però sono rimasti anche il senatore del New Jersey Cory Booker e il Ministro del lavoro Thomas Perez, che potrebbero portare alla Clinton i favori della comunità ispanica e afroamericana. Se the Donald punta su sceriffi, veterani e sulla propria istrionicità, la signora Clinton sceglie invece la strada sicura del calcolo politico. Quale delle due porterà al 1600 di Pennsylvania Avenue lo diranno solo le urne a novembre.