Non è detto che quando la Storia passa tutti la sappiano riconoscere. Perché nella Storia ci si può anche stare, i più come elementi del contesto, i meno, i pochissimi, come costruttori. Ma anche chi è protagonista non sempre riesce ad avere gli occhi per vedere il grande mutamento che si fa Storia. Qualche volta, però, accade che qualcuno la veda e la riconosca. Si tratta in genere di personalità vocate all’arte o di rari statisti. Quando passò il Sessantotto come un cielo compatto carico di elettricità, scaricandosi su tutto l’universo dall’America alla Nigeria, dalla Polonia alla Tunisia, dalla Francia all’Italia - Aldo Moro seppe leggervi uno scarto importante della grande Storia. La cifra di quel tempo imprendibile eppure così denso era data dall’affacciarsi sulla scena pubblica di un nuovo soggetto sociale, fino a quel tempo ingessato dentro una condizione di assistenza tutorale: i giovani. La prima globalizzazione della modernità, infatti, promuoveva i giovani come protagonisti della scena pubblica, poggiando su una particolarissima epifania del network contemporaneo, fatta di viaggi on the road, libri memorabili, concerti, riviste d’avanguardia, rock, radio e televisione. Media e persone che connettevano non tutto il mondo, ma solo quel fazzoletto di mondo che si ritrovava nella generazione dei nati all’alba delle democrazie contem- poranee, e che sapeva parlare la lingua universale dei nuovi giovani. Il ‘ 68 fu molte cose ancora, naturalmente, tra cui la pietra miliare della nuova stagione dei diritti che sarebbe esplosa, con effetti controversi, nel decennio successivo, e la radice di un’ideologia ambigua, nutrita del cascami del marxismo leninismo in chiave maoista, e, insieme, di una sorta di rivendicazione della partecipazione ai beni prodotti dal capitalismo che si voleva contestare. Ma, si sa, le rivoluzioni non procedono con andamento lineare. Moro capì, per pura intelligenza degli accadimenti e non per convenienza ideologica, che stava succedendo qualcosa di epocale, in cui i giovani avevano assunto un ruolo mai visto prima.

«Ci sono - scriveva sul Popolo il 15 maggio del 1968 - nel mondo tanti segni di rivolta e di protesta, in molti paesi dove la politica accende la violenza e finisce sulle piazze e nei tribunali». E incalzava: «Ai giovani voglio dire che mi rendo conto del loro disagio e che sinceramente comprendo la loro aspirazione a modificare in meglio il mondo che li circonda. È certo che hanno diritto ad una scuola più aperta, più moderna, e che la nazione non può permettersi di sprecare i talenti. Dicano, dunque, discutano, si organizzino per affermare i loro principi, le loro aspirazioni, ma non si isolino, non si considerino una casta fuori dalla comunità e, soprattutto, non disprezzino, per un eccesso polemico, tutto ciò che è stato fatto».

C’è in questo scritto una consapevolezza, rara nell’establishment di quella lontana stagione, dell’urgenza del nuovo tempo, forse resa più diretta dall’esercizio mai interrotto dell’insegnamento universitario. Ma c’è anche qualche curiosità lessicale, come l’uso dell’espressione “casta”, che ben diversa sorte semantica avrebbe avuto qualche decennio più tardi, ma fu adoperato da Moro per indicare il pericolo della separatezza dei giovani dai mondi vitali che pulsano nel tessuto sociale italiano. Moro usò parole di verità e di preoccupata attenzione per raccontare quella che percepiva come una cesura epocale. Parlava di «ansia di rinnovamento e di elevazione umana» in un suo intervento al Consiglio Nazionale della DC Il 21 novembre 1968, e aggiungeva: «Quest’ansia è ora diventata meno dominabile; si è tradotta in protesta imperiosa ed impaziente, ha messo a dura prova forze politiche...». Alle forze politiche che, pur ancorate a sicuri presidi democratici non sempre mostrano di comprendere ciò che sta accadendo, Moro si rivolge ammonendo: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità». Più avanti, a sottolineare il concetto, ribadirà: «Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia». Più volte lo statista pugliese tornerà sul tema del cambiamento e della «nuova umanità in cammino», da capire e guidare in coerenza con i principi della democrazia, che impongono alla politica il «dovere del servizio». Perché, come ebbe a dire a Padova in un’assemblea di partito nel marzo 1968, «Noi siamo con i tempi, siamo con la Storia». Il Sessantotto non morì con lo spirare dell’anno solare. L’intero decennio successivo si intrise delle idee, delle illusioni, delle conquiste, dei falsi miti di quel tempo infiammato di slancio vitale e qualche volta anche letale. Una deriva malata di quell’ ansia che Moro aveva saputo leggere in quel multiforme sessantotto, l’avrebbe colpito a morte allo scadere del decennio.

Moro aveva saputo leggere la Storia e la sua ineluttabilità. E nelle pieghe dell’ineluttabile c’era l’estremo sacrificio. «Abbiamo avuto momenti difficili, di ogni sorta, e li abbiamo superati. La direzione di marcia è quella che come democratici abbiamo fissato. Il cammino del progresso può continuare nell’ordine e nella libertà» ( Padova, 31 marzo 1968).