«Io chiedo a voi aiuto e giustizia, perché non capisco questo accanimento contro mio padre», così si rivolge – con una lettera indirizzata all’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini - il figlio di un detenuto che morì consumato da un tumore in cella nonostante fosse incompatibile con il carcere. Si chiamava Giuseppe D’Oca e, malato di tumore ai polmoni, era detenuto nel carcere di Vigevano per scontare l’ergastolo. Il 2 agosto 2016 è venuto a mancare all’età di 59 anni presso l’azienda ospedaliera di Pavia. Giuseppe era giunto in ospedale in condizioni oramai compromesse, nonostante la continua richiesta di incompatibilità il regime penitenziario. Secondo la Corte d’Assise che rigettò la richiesta, l’ergastolano non solo era compatibile, ma addirittura la sua perdita di peso sarebbe stata imputabile unicamente a un problema di portesi dentaria.

Il tumore di Giuseppe D’Oca, durante la sua permanenza in carcere, avanzava sempre di più. Già a fine 2014 si vedeva che non stava bene e i famigliari hanno fatto una richiesta al tribunale per chiedere l’incompatibilità con il carcere, ma gli è stata negata. Da quel momento in poi è andato sempre peggiorando, dimagrendo visibilmente, non mangiando più. I medici del carcere – secondo la testimonianza dei famigliari- dicevano che Giuseppe faceva finta. La Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento dell’ergastolano ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. Era quello, secondo i magistrati, il motivo del dimagrimento.

A quel punto la moglie aveva scritto al Partito Radicale. Una militante radicale ha raccolto l’urlo di dolore e si era presentata davanti al carcere di Vigevano. Alla richiesta di poter parlare con Giuseppe D’Oca, è stata invece indirizzata alla sezione femminile, vietando di fatto al detenuto di poter dimostrare il suo malessere che piano piano se lo stava divorando dall’interno.

A quel punto i familiari pagarono un neurologo per effettuare una visita specialistica. Il medico aveva riscontrato che era incompatibile con il carcere. Ma niente da fare: secondo le autorità, D’Oca poteva essere curato in cella. In pochi mesi dimagrì di 40 Kg e fu ricoverato urgentemente il 28 maggio del 2016 perché il suo deperimento era talmente clamoroso da destare le preoccupazioni del medico di turno. Ma era troppo tardi: dopo due mesi è morto.

La condizione fisica nel quale arcon rivò in ospedale era già compromessa. Così, infatti, si evince dalla cartella clinica redatta dall’ospedale: “Inviato dal medico del carcere per astenia ed inappetenza da 20 giorni. Paziente in terapia con Augmentin, Clotrimazolo, Meritene, Mirtazapina, Zoloft, Contramal Gtt, Theodur, Asa 100, Antra, Valdrom, Rivotril, Floster Spray, Tavot”. In data 6 giugno del 2016 l’esame concludeva indicando una “possibile lesione neoplastica polmonare”.

Nel referto si legge come “il quadro funzionale respiratorio in condizioni basali evidenzia una sindrome disventilatoria di tipo ostruttivo di marcata entità”. Sempre dalla cartella clinica, si legge che in data 9 giugno subisce un intervento e viene riscontrato che il tumore maligno si era oramai diffuso in maniera incurabile. Lo stesso magistrato di sorveglianza per disporre un provvedimento di “differenziazione dell’esecuzione della pena” ha riscontrato che al momento del ricovero “le condizioni del soggetto sono gravemente compromesse”.

I famigliari del detenuto hanno presentato recentemente un esposto alla Procura per chiedere giustizia. Il dubbio è quello che un ricovero ospedaliero più tempestivo, avrebbe probabilmente consentito ai sanitari di intervenire su un fisico meno compromesso aumentando la possibilità di salvarlo. Non vogliono cancellare le colpe del loro caro quando era in vita, ma vogliono sapere se qualcuno ha sbagliato nel non riscontrare in tempo l’insorgere della malattia.