Antonietta è una donna di Roma che scrive al Papa e ai magistrati raccontando la vicenda del marito. Una famiglia italiana letteralmente travolta dalla giustizia e dal carcere. Lui odontotecnico, lei bancaria, una vita normale che improvvisamente cambia per delle accuse infondate, come hanno stabilito i giudici che lo hanno assolto. Ma quel periodo trascorso in cella ha distrutto la famiglia di Antonietta. Il marito si ammala di tumore al fegato, lei ha un ictus. Oggi lui è costretto a chiedere al giudice di Sorveglianza dei permessi per potersi curare.

Sua Santità, mi permetto inviare anche a Lei questa lettera indirizzata ai Magistrati in epigrafe, poiché Lei ha sempre dimostrato sensibilità verso i carcerati. Non tutti possono vedere la verità, ma possono esserla. Quando ultimamente ha visitato il carcere San Vittore Lei ha detto ai detenuti: ' non bisogna dire: - lo meritate - perché tu non conosci la storia della persona, non sai cosa c’è dietro…'. Io sono dell’idea che la vera giustizia si otterrà nell’altro mondo, per ora bisogna accontentarsi della legge. La vita talvolta rassomiglia a un lungo e triste sabato santo. Tutto sembra finito, sembra che trionfi il malvagio, sembra che il male sia più forte del bene. Ma la fede ci fa vedere lontano, ci fa scorgere le luci di un nuovo giorno al di là di questo giorno. La fede ci garantisce che l’ultima parola spetta a Dio: soltanto a Dio! Per questo Le chiedo preghiere, affinché ci sia il trionfo del bene sul male. Gliele chiedo anche per tutti quei detenuti, che non ce la fanno a tenere accesa la luce della speranza e che ricorrono al suicidio.

Nel 1984 ho iniziato un cammino di fede. Un fratello di comunità, personaggio pubblico, mi ha presentato quello che è diventato poi mio marito, una persona generosa, altruista, onesta, con valori cristiani e buoni principi morali, con un solo difetto: riesce con molta facilità a mettersi nei guai perché in ogni persona vede solo il bene. Svolgeva l’attività di dentista odontotecnico. Successivamente si è laureato in medicina. Io lavoravo come segretaria presso la presidenza di una banca. La nostra vita era tranquilla fatta di persone lavoratrici e perbene. La vicenda nasce quando una persona ha richiesto a mio marito una prestazione odontotecnica. Alla fine del lavoro lo ha invitato alla sua villa vicino Roma adducendo come motivazione che avrebbe provveduto a saldargli quanto dovuto. Mio marito è andato e lui, invece di liquidarlo, gli ha proposto di entrare a far parte dell’organizzazione a livello internazionale da lui gestita, finalizzata allo spaccio di stupefacenti per l’acquisto di armi da destinare a un paese del Medio Oriente. Mio marito ha rifiutato. Siamo venuti solo successivamente a sapere che questo individuo era sottoposto a intercettazioni ambientali e telefoniche da parte dell’A. G. Ovviamente, essendosi parlati, anche mio marito è stato intercettato.

Nell’aprile del 1986, è stato arrestato e condotto nel carcere Regina Coeli con l’accusa di associazione a delinquere e spaccio di droga ( rischiava 25 anni di carcere), vi è rimasto per tutta la durata dell’istruttoria: due anni. Successivamente è iniziato un maxi processo durato vari mesi, con più di 100 imputati. Mio marito è stato assolto con formula piena sia in primo grado che in secondo grado di giudizio, su richiesta del Pm. All’epoca non era ancora uscita la legge che risarcisce le vittime di ingiusta detenzione, di chi innocente è stato in carcere. Come è risaputo, il carcere non rieduca, non recupera, il più delle volte abbrutisce e degrada. Il periodo trascorso in carcere è stato sufficiente a produrre gli effetti negativi della detenzione: ad esempio la perdita lavoro, dei contatti con la famiglia e con l’ambiente esterno; ha subito inoltre la contaminazione carceraria e le conseguenze indelebili e stigmatizzanti della reclusione e della desocializzazione. Non c’è di fatto recupero sociale se l’atteggiamento nei confronti del cittadino detenuto o del detenuto liberato, in special modo se è innocente, continua ad essere ispirato ad una ideologia punitiva che, come il marchio di infamia, perpetua la condanna di desocializzazione, producendo anzi un vero e proprio declassamento sociale del cittadino condannato che, pagato il debito verso la società, non è di fatto ricondotto ad una situazione di pari dignità sociale ed incontra maggiori ostacoli allo sviluppo della sua personalità nella proiezione della convivenza sociale. Tale mentalità si è proiettata anche nei miei riguardi e di mia figlia, che eravamo suoi parenti stretti. Io ho dovuto dire addio alla mia carriera bancaria e mia figlia è stata oggetto di episodi di bullismo verbale. Nonostante tutto, mio marito, dopo un periodo burrascoso, in cui ha vissuto come se avesse due vite parallele, grazie all’aiuto della famiglia, composta da persone umili, oneste e con forti radici cristiane, ha seguitato ad essere ben inserito in un contesto sociale e ben considerato nell’ambiente lavorativo. In precedenza la sua clientela era selezionata, composta in particolare da medici odontoiatri che gli commissionavano il lavoro. Dopo l’esperienza del carcere ha iniziato ad avere un rapporto diretto con i destinatari di apparecchi ortodontici, che però erano gli emarginati, gli ultimi, i poveri, i rifiuti della società, coloro che non si potevano permettere tali prestazioni, li trattava con amore e rispetto ed era sempre disponibile con tutti, la maggior parte delle volte non si faceva pagare e/ o chiedeva cifre irrisorie.

Nel 2008 è stato ricoverato in ospedale per cirrosi epatica con ascite scompensata. In questi anni ha sofferto di iperammoniemia ( elevata concentrazione di ammonio nel sangue). Con l’evoluzione della malattia ha iniziato a manifestare: confusione mentale, atassia, disorientamento e deficit cognitivi, che associati alla sofferenza psichica derivante dallo shock della detenzione e problemi di varia natura, si è alimentato una sorta di circolo vizioso, con il conseguente aggravarsi di un disagio psichico con disturbi della personalità. Nel luglio 2015, si è presentato un amico a chiedere ospitalità, che mio marito gli ha concesso, perché sia lui che la mamma anziana erano stati sfrattati e dormivano in macchina e lui era disoccupato. Dopo qualdetenuto che giorno sono stati arrestati sia mio marito che il suo amico, che attualmente è ricoverato nel Reparto Psichiatrico di un carcere. Data la gravità della sua malattia, dal carcere, per ben due volte, mio marito è stato trasportato d’urgenza con codice rosso in ospedale, dove è stato ricoverato per parecchi giorni. Nonostante fosse piantonato da due guardie carcerarie, ha tentato il suicidio: ha dato l’allarme una infermiera. Una volta dimesso dall’ospedale è stato trasferito nel Reparto Psichiatrico del carcere. Successivamente è intervenuto il medico legale del Tribunale, che ha disposto quale forma detentiva, gli arresti domiciliari urgentissimi. Prima che uscisse dal carcere, il 1/ 1/ 2016 sono andati a fargli visita, direttamente nella sua cella, dimostrandogli un po’ di calore e di umanità: Marco Pannella, Rita Bernardini, Roberto Giachetti e la direttrice del carcere. La stessa, non ritenendolo una persona pericolosa, lo aveva allocato alla sesta sezione a vigilanza dinamica.

Una volta a casa, dopo pochi mesi ho iniziato io a stare male. Nel mese di luglio e agosto dello scorso anno molte autorizzazioni non sono pervenute e nel frattempo la situazione clinica di mio marito è precipitata: gli è stato diagnosticato un tumore al fegato. Quindi è stato ricoverato urgentemente in ospedale dove vi è rimasto per due mesi. Durante la sua degenza ha contratto tre tipi di infezioni ed è stato in pericolo di vita. Una volta dimesso io sono stata costretta ad andarmene di casa, perché affetta da varie patologie invalidanti, nonché una forte depressione con istinti suicidi. Avendo problemi di deambulazione, ho difficoltà anche ad andare dal medico curante. Ad aprile del 2015 sono stata ricoverata in ospedale per ictus. Quindi mio marito è dal mese di novembre 2016 che vive da solo: ha il permesso di uscire per sole due ore dalle 9 alle 11. Avrebbe bisogno di assistenza medica e psicologica, ma a casa non può venire nessuno. Ha saltato molte visite specialistiche, e analisi, per i seguenti motivi: per richiedere il certificato da far pervenire al giudice per il rilascio dell’autorizzazione alla visita specialistica o per effettuare le analisi, bisogna recarsi in ospedale e ci vogliono in media 5 ore, tempo di andata e ritorno, e lui ha il permesso di allontanarsi per sole due ore. Fisicamente non ha le forze, considerata la gravità della sua malattia.

L’avvocato per ogni istanza che invia al giudice vuole essere pagato. Mio marito quale suo unico reddito, percepisce una pensione di invalidità di 270€ mensili, mentre la mia unica fonte di reddito è la pensione Inps che non ricopre tutte le spese da sostenere.

A breve dovrebbe essere ricoverato di nuovo perché non ha risposto alle cure effettuate per il tumore. Ciò che ci sostiene e ci ha sostenuto fino ad ora sono le nostre preghiere e quelle delle persone che ci conoscono, che noi abbiamo aiutato nel corso della nostra vita.