«Ogni giorno mi insultano, sul metrò, in autobus, per strada, alcuni mi sputano addosso semplicemente perché indosso il velo. Ma io non ho mai insultato, non ho mai offeso nessuno. Sono solo una musulmana e sto pensando seriamente di cambiare Paese, magari andrò dove lo sguardo degli altri non mi faccia piangere ogni sera nel mio letto». Le parole di Nora, studentessa in ingegneria a Parigi, sono state raccolte assieme a tante altre testimonianze dal New York Times e descrivono con cruda rassegnazione il calvario vissuto da molte donne velate in Francia, assediate da un clima di crescente islamofobia e intolleranza. Un clima «che somiglia a un piccolo apartheid», alimentato dagli attentati jihadisti dell'ultimo anno e mezzo, dalla propaganda della destra populista, dalle ordinanze anti-burquini e dallo stesso governo di sinistra con la sua indefessa e religiosissima difesa del laicismo. «Mi insultano anche in classe, mi dicono che sono una schifosa salafita perché magari mi hanno vista velata in strada, sto male e inizio a diventare paranoica: a quando una mezza luna gialla sui miei vestiti come fecero con gli ebrei? Vorrei reagire ma non ho la forza di Rosa Parks».Talisma Amar ha 30 anni, insegna in un liceo della periferia parigina, indossa un sottilissimo chador (il velo che lascia scoperto tutto l'ovale del volto) e negli ultimi mesi sta vivendo sulla sua pelle l'ostilità da parte di studenti, colleghi di lavoro o semplici passanti: «Quando ho il velo devo subire gli sguardi di rimprovero degli altri, ma anche le ingiurie, c'è persino chi dice che dovrei tornarmene dritta a casa mia, ma casa mia è la Francia, il paese dove vivo e sono nata! ».Se i pregiudizi anti-musulmani si sono intensificati con gli attentati terroristi del 2015, il sentimento di intolleranza diffusa viene da più lontano: «Le cose sono cambiate con gli attentati compiuti da Mohammed Merah» giura Djalab Bouguerra, studentessa di 21 anni a Bourg-en-Bresse, sobborgo nella provincia di Lione. Merah era un giovane del Miraill (sterminata cité alla periferia di Tolosa) responsabile dell'uccisione di due militari e di tre bambini nel cortile di una scuola ebraica. Ucciso a sua volta dalla polizia in un controverso blitz nella sua abitazione, i suoi spietati omicidi avevano scosso profondamente l'opinione pubblica d'oltralpe, portando alla ribalta l'emergenza jihad nel paese dei Diritti dell'uomo. Hajer Zennou ha 27 anni, lavora come designer in un'azienda lionese e sposta ancora più indietro la data in cui sono iniziati i problemi: «Mi ricordo perfettamente, era il 2010, il presidente Sarkozy aveva fatto approvare la legge che vietava di portare lo chador nelle scuole. Quel giorno il mio professore mi aveva obbligata a togliermi il velo davanti i miei compagni, mi sono sentita umiliata. Quando questa estate è venuta fuori la vicenda del burquini ho rivissuto quell'umiliazione».In molti, in primis il premier socialista Valls, accusano le donne velate di ostentare un simbolo dell'oppressione femminile da parte di un potere medievale e maschilista, ma in moltissimi casi si tratta di una scelta individuale, non condizionata da nessuno: «Portare il velo non significa essere asservite a un uomo. Al contrario è una riappropriazione del corpo e della femminilità», tuona Nawal Afkir, un'assistente sociale di 25 anni.Il disagio vissuto da migliaia e migliaia di musulmane francesi sta modificando la stessa percezione dei rapporti sociali e i loro comportamenti pubblici come spiega Mira Hassine, 27 anni e responsabile amministrativa in un'impresa edile: «Sul posto di lavoro non ho alcun problema a togliere il velo, ma quando esco in strada non vedo perché dovrei nasconderlo, purtroppo il clima è quello che è. Ormai non rispondo più agli inviti di amici e colleghi per non dover giustificare il mio abbigliamento o il mio rifiuto a bere dell' alcool. Per non parlare delle insinuazioni e delle battute di cattivo gusto sui miei "cugini jihadisti"».Perché per "integrarsi" le donne devono rinunciare ai propri principi religiosi? Stiamo parlando d'altra parte di cittadine già perfettamente integrate capaci di distinguere tra spazi pubblici e spazi privati e di togliersi il velo in un'aula scolastica o in un ambulatorio di ospedale, ma che non riescono proprio a capire come il loro abbigliamento possa creare problemi di coesione sociale o addirittura di «ordine pubblico», come recitava l'ordinanza anti-burquini del sindaco di Cannes Daniel Lisnard in difesa «del buoncostume e della laicità» (sic). Come spiega Karima Mondon, 37 anni e insegnante di francese in un liceo di Lione: «Quando isoli un'intera comunità all'interno di una società, l'integrazione va in pezzi e le persone vengono messe ai margini della vita collettiva con conseguenze molto rischiose».In effetti alle odiose forme di discriminazione promosse dai sindaci e implicitamente avallate dal governo, uno degli effetti più pericolosi di questa crociata anti-islamica è la radicalizzazione delle giovani musulmane, un fenomeno in grande espansione come ci raccontano le cronache recenti. Le tre ragazze arrestate la scorsa settimana a Parigi con l'accusa di voler preparare un attentato nella capitale hanno portato nel cuore del dibattito pubblico il fenomeno delle donne jihadiste o aspiranti tali.La sociologa Agnès De Féo che lavora da anni sulla radicalizzazione delle giovani donne musulmane è convinta che le munaqaba (donne che indossano il niqab, il velo integrale) compiano una scelta più identitaria che un iter religioso codificato dal proprio entourage familiare. Nella stragrande maggioranza dei casi la scelta del niqab viene ufficializzata contro le loro stesse famiglie musulmane, ostili a un'interpretazione così radicale dell'Islam: «È un segno di distinzione all'interno dello spazio pubblico indotto dalla vessazioni che subiscono ogni giorno, l'elemento religioso è solo l'involucro di una forma di ribellione a quella che percepiscono come un'ingiustizia. Si tratta del circolo vizioso divieto-radicalizzazione». Indossare il niqab è in tal senso «un modo di proiettare la loro vita in un altrove utopico, magari identificato con un viaggio in Siria nei territori controllati da Daesh (Lo Stato Islamico in lingua araba), non solo perché la hijra (la partenza verso le terre dell'Islam) è un must della loro religione, ma soprattutto perché la vfita in Francia è diventata insopportabile». Anche De Féo individua nella legge che vieta di indossare il velo nelle scuole uno spartiacque nel percorso di radicalizzazione femminile: «Questo spiega perché le francesi sono le occidentali più numerose ad arruolarsi tra le fila di Daesh».