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Lo spietato omicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un’ondata di empatia e un dibattito pubblico come raramente si era visto per un fatto di cronaca nera. È segno che la nostra società, anche a fronte della diminuzione dei crimini violenti, è oggi molto più evoluta e sensibile alla piaga dei femminicidi, ritenuti ormai socialmente intollerabili.
Si sono mobilitate le istituzioni, promettendo una legge bipartisan che introduca corsi di affettività nelle scuole, si sono mobilitati i giovani e le giovani dei licei, che sono scesi in piazza e hanno ricordato con un “minuto di rumore” le vittime della violenza maschile. E poi intellettuali, sociologi, pedagoghi, editorialisti, personaggi dello spettacolo e dello sport, non solo a condannare la ferocia di un atto estremo come l’omicidio, ma anche a indagare e comprendere la cultura che alla base della sopraffazione di genere che si annida nei dettagli della vita quotidiana, l’ossessione del possesso che molti maschi hanno verso le loro compagne, il ruolo centrale dell’educazione. Nonostante i particolari morbosi da cronacaccia nera e il sensazionalismo da clickbait in cui sguazzano alcuni media, il dibattito provocato dalla tragica morte di Giulia Cecchettin è un fatto più che positivo che segna un avanzamento nella nostra consapevolezza.
Peccato che questo prezioso momento di riflessione e mobilitazione collettiva sia accompagnato dalla solita schiera di soloni e bigotti con il ditino puntato e la predica pronta, o peggio ancora di aspiranti inquisitori. Costoro non hanno bisogno né interesse nel capire un fenomeno complesso e stratificato come la violenza sulle donne, vogliono soltanto trovare un colpevole, un capro espiatorio a cui accollare la responsabilità corale dei femminicidi.
Per esempio le famiglie, sbattute sul banco degli imputati perché incapaci di insegnare ai propri figli maschi il rispetto delle donne. Lasciando da parte la volgarità degli insulti rivolti ai genitori di Filippo Turetta, anche loro con una vita segnata per sempre dal dolore e dall’angoscia, sono proprio le famiglie in quanto tali e, paradossalmente le madri a finire alla simbolica sbarra di questi giudizi violenti e superficiali.
Fanno impressione in tal senso le parole della leghista ed ex magistrata Simonetta Matone ospite di Domenica in, che spara dal nulla: «Non ho mai incontrato soggetti gravemente maltrattati e gravemente disturbati che avessero delle mamme normali». Secondo Matone, che rovescia il rapporto vittima-carnefice, le madri sarebbero responsabili di non ribellarsi alla violenza domestica, autorizzando implicitamente i propri figli a comportarsi in quel modo con le loro future compagne: «Prendere le botte dal padre e non reagire, far vivere il figlio in un clima di terrore e violenza e fargli credere che tutto questo è normale, impone al figlio un modello familiare». Insomma la colpa non è di papà che ti picchia, ma di mamma che non ha la forza (o le “palle”?) per reagire ai soprusi. Facile no? In forma più civile ma altrettanto sciatta è intervenuto Paolo Crepet, l’onnipresente psicologo televisivo ha rispolverato un suo vecchio pallino, accusando entrambe le figure genitoriali, troppo protettive con i loro piccoli e immature come loro: «Sono i genitori i primi a voler essere eternamente giovani. E quindi è ovvio che i loro figli a loro volta non crescano».
Andiamo invece sul classico con la chiamata in causa dei cosiddetti “modelli negativi” che la società dello spettacolo offre alla nostra gioventù, su tutti la pericolosissima musica trap, ricettacolo di cultura sessista e testosteronica. Ad accusare i trapper non è stato un attempato boomer come Crepet ma l’attrice Cristiana Capotondi per la quale se ascolti quei testi «non poi c’è da sorprendersi se un giovane considera una donna un oggetto a cui togliere la vita».
C’è poi sullo sfondo una polemica politica un po’ triste e un po’ sciacalla . Diversi esponenti della sinistra ritengono infatti che i loro avversari non abbiano diritto a parlare di violenza di genere in quanto la destra sarebbe storicamente portatrice di una cultura maschilista e patriarcale. Lo ha sottolineato Lilli Gruber, attaccando per questo motivo Giorgia Meloni e precipitando in un surreale cortocircuito con la prima premier della storia repubblicana, una che, tra le altre cose, è cresciuta senza un padre in una casa di sole donne. Specularmente la destra punta l’indice contro il «lassismo» e la «cultura permissiva» della sinistra, che abbandona i giovani a se stessi, senza valori e senza disciplina.