Fronte popolare, Santa alleanza o accozzaglia? Chi vuole può lanciarsi nel gioco delle definizioni, di certo l’appello lanciato ieri da Emmanuel Macron a tutte le forze politiche «democratiche e repubblicane» per fermare l’ascesa del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella (Rn) sembra appartenere a un’altra era politica, quando votare la destra nazionalista e xenofoba oltre le Alpi rappresentava un autentico tabù. Quel tabù però si è infranto da almeno un decennio e, a ogni appuntamento elettorale successivo, il Rn conquista consensi tra l’elettorato centrista e moderato.

D’altra parte che altro poteva dire Macron? Dopo la débâcle delle europee si è ritrovato a guidare una formazione con il 14% mentre la corazzata di Le Pen veleggia oltre il 32%, saldamente primo partito di Francia. Certo, avrebbe potuto evitare l’azzardo della dissolution, e vivacchiare fino alla scadenza del suo mandato (2027) con una maggioranza numericamente precaria e politicamente fragilissima. O, nel solco della politique politicienne, gettare fumo negli occhi dei francesi con un rimpasto ministeriale. Lo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale ha infatti sorpreso un po’ tutti, in primo luogo i suoi stessi alleati, molti osservatori la considerano un’inutile spacconata, una fuga in avanti che mette sotto stress la democrazia transalpina, ma il presidente rivendica la sua scelta, l’unica possibile per evitare una catastrofe alle prossime presidenziali: «Restituire la parola al popolo è sempre un atto democratico. Non voglio dare le chiavi del potere all'estrema destra nel 2027, il sussulto deve avvenire adesso!».

Durissime le parole rivolte ai post-gollisti di Eric Ciotti (Lr) che lunedì ha aperto a un’intesa elettorale con Le Pen e soci, spaccando letteralmente in due il partito che un tempo fu di De Gaulle: «Sono cadute le maschere, e ora si capirà chi vuole far prosperare il suo orticello e chi vuole far prosperare la Francia. Quella tra centrodestra e destra estrema è un’unione contro natura, Ciotti in poche ore ha girato le spalle al generale De Gaulle, a Jacques Chirac e a Nicolas Sarkozy», tuona ancora Macron.

Uno degli aspetti più marcanti di questa campagna elettorale è il tempo, ristrettissimo: mancano infatti appena 18 giorni al primo turno e i partiti non hanno materialmente la possibilità di costruire un programma profondo, ma paradossalmente questa situazione favorisce i vecchi riflessi condizionati: in meno di tre settimane il cartello anti-Le Pen non avrà la possibilità di elaborare un progetto comune, ma neanche il tempo per dividersi e litigare come è sempre avvenuto nella storia recente.

È l’antica strategia del barrage repubblicano che nel 2002 funzionò perfettamente per fermare la corsa del Fn di Jean Marie Le Pen e in parte ha funzionato anche contro la figlia Marine nel 2017 e nel 2022. Ad alimentare una flebile speranza per Macron è la legge elettorale delle legislative: uninominale secco a due turni. I candidati del Rn saranno infatti largamente in testa la sera del primo turno, ma potrebbero incontrare diverse difficoltà ai ballottaggi del 7 luglio se gli elettori di sinistra e i centristi vicini a Macron votassero compatti contro di loro.

L’inquilino dell’Eliseo ha poi voluto smentire una voce che da domenica circola insistentemente, e cioè che potrebbe rassegnare le dimissioni nel caso (probabile) in cui il Rassemblement national ottenesse la maggioranza assoluta di seggi all’Assemblea (269) approdando al governo della Francia. «È assurdo che io mi dimetta, le presidenziali si sono svolte nel 2022 e io resterò all’Eliseo fino al 2027». Infine una frecciata a chi gli chiede con insistenza se, davanti a una chiara sconfitta, nominerà il primo ministro giovane Bardella: «Non c’è nessuna fatalità sull’arrivo al potere dell’estrema destra. Mi colpisce questo spirito di sconfitta. Io non ho affatto lo spirito dello sconfitto».