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Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Acta Neuropathologica” da a tutti i calciatori professionisti, ex calciatori e giocatori amatoriali, una notizia poco piacevole, seppur prematura. Pare infatti che giocare a calcio durante un lungo periodo aumenti la probabilità di contrarre l’encefalopatia traumatica cronica (CTE). Questa patologia neurodegenerativa, anche conosciuta come sindrome da demenza pugilistica, è una forma di demenza causata da concussioni e percosse cerebrali protrattesi per lungo tempo.
Fino ad oggi però, solo a quattro calciatori era stata ufficialmente diagnosticata la CTE. Uno di questi era il calciatore inglese Jeff Astle, morto nel 2002 a 59 anni, e la cui malattia è stata pubblicamente accertata solamente nel 2014. Infatti non esiste modo di diagnosticare la CTE se non attraverso particolari esami sul cervello post mortem. Ma proprio la Jeff Astle’s Foundation, che si occupa degli infortuni e delle malattie degli ex calciatori, sottolinea che più di 250 ex giocatori hanno sofferto di malattie neuro-degenerative.
Inizialmente si pensava che la CTE potesse legarsi a forti traumi, tipici di sport ben più duri come il football americano, il rugby, la boxe, l’hockey o le arti marziali. <<Ma penso bisogna sottolineare che la CTE sia una patologia più semplice da contrarre di quanto si pensi>>, spiega la dottoressa Ann McKee, che non ha partecipato allo studio in questione, ma è la direttrice del Boston University CTE Center. <<Dipende semplicemente da impatti ripetuti alla testa>>. La ricerca ha preso in esame la vita e la carriera di 14 calciatori deceduti per casi di demenza neuro-degenerativa avanzata. Sei famiglie, nonostante fossero passati anni dalla morte dei loro parenti, hanno dato l’assenso per esami specifici sul tipo di demenza che aveva colpito i calciatori. In quattro casi su sei, è stata riscontrata l’encefalopatia cronica traumatica, oltre ad una lieve forma di Alzheimer. Nessuno di questi calciatori, durante la carriera, aveva subito scontri o forti lesioni alla testa.
<<È la prima volta che la CTE viene riscontrata su un gruppo di ex calciatori>>, afferma la dottoressa Helen Ling del dipartimento di neurologia alla University College of London e a capo della ricerca. <<Tutti e sei hanno subito traumi minori alla testa durante un periodo prolungato di tempo>>, conclude. I sei ex calciatori, compreso un giocatore amatoriale, avevano giocato per più di vent’anni e a tutti era stata accertata la presenza di una forma generica di demenza intorno ai sessant’anni.
Le difficoltà nel differenziare la tipologia di demenza (CTE o Alzheimer per esempio) sono alla base della povertà di dati concreti a cui gli esperti devono far fronte e dunque alle complicazioni nel trovare una cura.
Helen Ling e colleghi sono però riusciti a distinguere le prime piccole variabili tra Alzheimer e CTE. Pare che entrambe le patologie producano un accumulo di proteine tau nel cervello, ma che nei casi di encefalopatia traumatica cronica, le proteine tau erano concentrate vicino ai vasi sanguigni e tra le scalanature della superficie cerebrale. <<Voglio sottolineare>>, commenta Huw Morris, professore di Neuroscienza Clinica alla UCL Institute of Neurology che ha partecipato al progetto, <<che per ora è stato analizzato un campione troppo piccolo di giocatori>>. Che fare dunque? Evitare i calci d’angolo e le mischie in area? È ancora troppo presto per dirlo, ma nel frattempo l’Associazione Americana Calcio Giovanile ha eliminato, dagli allenamenti, i colpi di testa per i minori di dieci anni.