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DONALD TRUMP PRESIDENTE USA
C’è chi, come Filippo Tommaso Marinetti, nella guerra vedeva l’«igiene del mondo» e chi vi scorge l’eco terribile di un dio arcaico, capace di pretendere sacrifici umani in cambio di gloria. Marte, divinità romana della battaglia, torna oggi a incarnarsi simbolicamente a Washington, dove Donald Trump ha deciso di riportare il Pentagono al suo nome originario: non più Dipartimento della Difesa, ma Dipartimento della Guerra.
Il decreto è stato firmato con la motivazione spiegata dallo stesso presidente: «Difesa è un termine inadeguato, gli stati Uniti sono una grande potenza offensiva», spiega il tycoon. Un ribaltamento lessicale coerente con il nuovo ordine planetario perseguito dalla Casa Bianca.
Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, molte nazioni hanno deciso di cambiare il nome dei propri ministeri militari: la parola “guerra” fu progressivamente sostituita da “difesa” per rappresentare una nuova era in cui lo Stato armato deve proteggere i propri cittadini e non aggredire altre nazioni, nello spirito della nascente Onu e del nostro articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In Europa e oltreoceano, questo slittamento semantico servì anche a dare legittimità morale alle forze armate nel contesto della Guerra fredda: una difesa prudente, non aggressiva, era il segnale che la violenza militare restava un’ultima risorsa, mentre la diplomazia e la cooperazione internazionale dovevano prevalere sullo sfondo della deterrenza atomica. La decisione di Trump rompe decisamente questa grammatica post-bellica, dando ragione a chi vede nell’avvento al potere di The Donald una brutale cesura con il mondo nato dalle macerie della più sanguinosa guerra della Storia e un ritorno della forza come sostituto della concertazione diplomatica.
Presentato dalla Casa Bianca come un atto volto a «ristabilire il nome storico» del Pentagono, in vigore dal 1789 fino al 1949, il decreto non è solo un’operazione di facciata. Pete Hegseth, che Trump, per portarsi avanti con il lavoro, già chiama «segretario alla Guerra», è stato incaricato di avviare le procedure legislative necessarie per rendere definitiva la trasformazione. «Tutti apprezzano il fatto che, quando eravamo il Dipartimento della Guerra, abbiamo conosciuto una straordinaria serie di vittorie e abbiamo trionfato nei due conflitti mondiali. Poi siamo diventati Difesa e abbiamo iniziato a perdere», ha detto Trump davanti ai cronisti.
La Casa Bianca, nel documento ufficiale, ha sottolineato come la nuova denominazione «trasmetta un messaggio più forte di preparazione e determinazione», rispetto a una parola che sembra evocare soltanto resistenza passiva. Dietro la retorica c’è però la strategia politica di Trump, piena di paradossi e controsensi: far regnare «la pace con la forza», riaffermare che gli Stati Uniti hanno «una potenza militare senza eguali» e che per questo devono essere protagonisti assoluti sulla scena globale.
Dal suo ritorno alla Casa Bianca il presidente Usa ha posto un’attenzione speciale verso il Pentagono, accusandolo addirittura di «deriva woke» per la sua gestione delle risorse e per l’orientamento verso programmi di diversità e inclusione, considerati incompatibili con l’efficienza militare di una nazione dominatrice come gli Stati Uniti.
Tra i suoi primi decreti emanati dopo il 21 gennaio c’è l’Executive Order 14183, intitolato Prioritizing Military Excellence and Readiness, che ha stabilisce il divieto per le persone transgender di servire apertamente nelle forze armate. L’ordine esecutivo ha imposto restrizioni sull’uso di strutture separate per sesso (come dormitori e bagni) per i trans impiegati del Pentagono obbligandoli a utilizzare quelle corrispondenti al sesso assegnato alla nascita.
Diverse cause legali sono state intentate per contestare queste politiche di esclusione, con alcune decisioni giudiziarie che hanno temporaneamente sospeso la loro attuazione, mentre altre le hanno legittimate, creando una selva di ricorsi per quadro giuridico incerto. I suoi oppositori parlano apertamente di una svolta autoritaria, di un capo di Stato che considera i militari un’estensione del proprio potere e carisma politico come testimonia l’invio della Guardia nazionale in California e a Washington (uno Stato e un distretto feudi storici del partito democratico) ufficialmente per sedare rivolte e invasioni immaginarie.
Il cambio di nome al Dipartimento della difesa segna oggi uno scarto ulteriore. Evocare la “guerra” non significa solo richiamarsi a un passato glorioso, ma dichiarare che il futuro sarà plasmato dall’offensiva, dalla deterrenza aggressiva, dall’idea che il rispetto internazionale si conquista attraverso il timore che si è capaci di incutere alle altre nazioni.
Con un gigantesco paradosso: mentre rievoca i fasti bellici del passato e mostra i muscoli al pianeta, Trump non rinuncia al sogno di un riconoscimento assai diverso. Da mesi lascia trapelare la sua aspirazione a un premio che consacri, agli occhi del mondo, la sua grandezza di uomo di Stato: il Nobel per la pace. Forse, nella sua logica, non c’è contraddizione. La guerra, dopotutto, rimane — per chi la evoca come igiene del mondo — la via più breve per conquistare la pace.