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«Dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. (...) Se vogliamo ristabilire l'Islam nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l'Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l'Islam dalle grinfie di Daesh» scrive su Repubblica Tahar Ben Jelloun. Sul sito del quotidiano campeggiano anche le parole di condanna dell'imam di Saint-Etienne Mohammed Karabilia e da Abdellah Redouane, segretario generale del Centro Islamico d'Italia che guida la moschea di Roma. Basteranno le perse di posizione del noto scrittore marocchino e delle due guide religiose a soddisfare tutti coloro che chiedono una "presa di posizione contro l'Isis" da parte dei musulmani? Probabilmente no, considerando che manifestazioni ed eventi pubblici contro i jihadisti i musulmani le stanno offrendo da ben prima che l'Europa imparasse a conoscere la sigla Isis. Quando, il 29 giugno 2014, Abu Bakr al-Baghdadi si autoproclamò Califfo da una moschea di Mosul, non tutti i musulmani si sentirono rappresentati e felici di essere inglobati nel nascente "Stato Islamico". Consapevoli del tributo di sangue pagato e di quello che si sarebbe aggiunto, molte autorità religiose musulmane si sono sollevate contro al Baghdadi, riducendo la sua credibilità a quella di un venditore di fumo. Da pochi giorni è uscito anche in Italia il libro Contro l'Isis che raccoglie le fatwa (dichiarazioni giuridiche) pronunciate dalle autorità musulmane di tutto il mondo contro il Califfo e il suo Stato Islamico. Decine di editti forti e influenti che però non hanno ricevuto un milionesimo dell'attenzione riservata alla famosa fatwa di Khomeini contro lo scrittore Salman Rushdie. Che l'Isis e il suo leader non abbiano niente a che fare con l'Islam e il Corano lo va ripetendo da anni anche Shaikh Muhammad al Yaqoubi, clerico sunnita e insegnante di teologia islamica di Damasco. Al Yaqoubi, figlio di un grande maestro sufi, ha avuto un ruolo di primo piano dall'inizio della crisi siriana come oppositore sia del Presidente Bashar al Assad che di al Baghdadi, a cui nel settembre 2014 scrisse una lettera per condannare la sua visione dell'Islam. Rimasto a seguire le sorti del Paese, molto attivo e seguito su Twitter, intervistato dalla Cnn e dai maggiori network internazionali, al Yacoubi ha ispirato la scrittura di Refuting Isis, un libro giunto alla seconda edizione dopo i recenti attentati in Europa e Stati Uniti da cui è nato un omonimo sito web in inglese con migliaia di followers, ovviamente musulmani. L'Islam non ha struttura gerarchica come la chiesa cattolica, quindi più guide religiose si pronunciano contro l'Isis, più comunità ricevono il messaggio. E sono innumerevoli i leader che questa condanna l'hanno fatta in pubblico, nelle moschee o nelle scuole e università. Ma quello che si chiede ai musulmani è dissociarsi pubblicamente con manifestazioni di piazza e riconoscimenti visibili. Ferma restando la domanda sul perché oltre un miliardo di persone dovrebbero sentirsi colpevoli per i crimini di terroristi che non hanno mai conosciuto, i musulmani non hanno mancato occasione per manifestare la loro rabbia. Sono ancora nella memoria le immagini degli imam francesi partecipi alla fiaccolata per le vittime di Nizza, ma basta allargare un po' la visione per trovare altri esempi. L'attentato di Dacca del primo luglio, dove hanno perso la vita 20 persone, è stato seguito da manifestazioni di protesta e solidarietà non solo in Bangladesh, ma anche laddove la comunità bengalese emigrata è presente in massa, come a Firenze o Monfalcone. Pochi giorni dopo la strage, Zakir Naik, noto predicatore islamico indiano nel mirino dei terroristi per la sua posizione anti Isis, è tornato a dire in televisione che Daesh dovrebbe essere chiamato «lo Stato Antislamico di Iraq e Siria». Naik è solo il volto delle migliaia di musulmani indiani che si battono contro il terrorismo, nonostante siano sotto l'attacco sia del governo ultranazionalista di Narendra Modi che del fondamentalismo. Nel dicembre scorso un milione e mezzo di musulmani indiani hanno sfilato contro l'Isis fino a un santuario Sufi e hanno firmato una fatwa di condanna scritta da 70mila clerici sunniti di tutto il mondo. E nello stesso periodo ci sono state fiaccolate di comunità musulmane a Londra, New York, Roma con lo slogan not in my name. Eventi spesso ignorati dai media e dal grande pubblico, ignaro o indifferente al fatto che la maggioranza delle vittime del terrorismo globale sia di fede musulmana e che nel mondo ci sia ancora chi rischia la vita ogni giorno per le proprie convinzioni.