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«Ose etre, osa essere per amare e aiutare quelle che lavorano e che sono ancora vittime dell’ingiustizia e della povertà, a tua volta impara a lavorare tu che nella società godi di un posto privilegiato, per capire quelle che penano. Ose etre...».
Aprile 1914, Lidia Poët pronuncia queste parole durante una conferenza sulle questioni femminili. Prima avvocata del Regno d’Italia iscritta all’Ordine di Torino nel 1883, è vicina a riottenere quel titolo che le avevano strappato via. Ci riuscirà finalmente nel 1920, dopo una lunga battaglia. Che ieri abbiamo raccontato nella cornice del Salone del libro di Torino insieme alla sua pronipote, l’avvocata Daniela Trezzi, la pastora e teologa valdese Elisabetta Ribet e la presidente del Comitato pari opportunità (Cpo) dell’Ordine degli avvocati di Torino Cesarina Manassero. L’obiettivo dell’incontro, che ha dato il via al programma di dibattiti che si terranno allo stand del Dubbio fino a domenica, era ripartire dalla storia “vera” di Lidia Poët, fortunato personaggio di una serie Netflix, attraverso le testimonianze e i documenti custoditi dalla sua famiglia e dall’avvocatura piemontese. Tra queste, ci sono le parole di Lidia Poët, pronunciate e scritte, che ieri sono risuonate nella kermesse culturale torinese più potenti che mai. «Io e mia sorella siamo cresciute tra i suoi esempi, i suoi ricordi, gli oggetti che le erano appartenuti. Per noi era una storia personale, familiare, fino a quando il grande pubblico l’ha conosciuta», ha spiegato l’avvocata Trezzi. Che con la sua prozia condivide il dna ma anche l’albo di appartenenza, Torino, di cui è fiera di far parte per il coraggio che il Consiglio dell’Ordine ebbe in quel 1883 nell’accogliere l’iscrizione Lidia Poët. Che tanto “scandalo” aveva suscitato nei tribunali sabaudi per aver osato accostarsi a una professione esclusivamente maschile. Piemontese di Traverse, valdese, tra le prime donne a laurearsi in giurisprudenza con una tesi profetica sulla condizione femminile e il diritto di voto, Poët aveva superato brillantemente l’esame di procuratore legale dopo aver svolto la pratica forense. Non senza scontrarsi con i pregiudizi e gli stereotipi con cui fu costretta a confrontarsi anche nell’ateneo, quando per lei avevano riservato un “banco” separato dagli uomini. Poët non si lasciò scoraggiare e dimostrò il suo valore, con lo studio e gli strumenti del diritto. Anche quando le sbarrarono la strada per l’Aula. Nulla, formalmente, impediva il suo accesso alla professione: la legge non prevedeva un divieto esplicito per le donne di presentare domanda di iscrizione né di vestire la toga. Ad opporsi fu l’allora Procuratore Generale del Re, che decise di denunciare questa “anomalia” alla Corte d’Appello.
I giudici decisero di accogliere il ricorso e di cancellarla dall’Ordine con questa motivazione: «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine». Parole sottoscritte dalla Cassazione, che confermò la sua cancellazione. Ma che non scalfirono Lidia Poët: anche privata del “titolo” continuò a svolgere la professione presso lo studio legale del fratello, occupandosi dei diritti delle donne, dei minori e di carcere. In maniera così efficace che, ricorda Trezzi, tra i suoi più affezionati clienti bisogna annoverare anche la famiglia Agnelli. Furono loro a donarle un ventaglio, gelosamente custodito da Trezzi, sulla quale è riprodotta una caotica aula di tribunale. Siamo nel 1920: un anno prima, l’approvazione della legge Sacchi aveva autorizzato ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici, permettendo a Poët di reindossare finalmente la toga all’età di 65 anni.
«Lidia era una pasionaria, una rivoluzionaria, un’idealista. Una donna libera, aperta, che conosceva quattro lingue perfettamente», ricorda Trezzi. Un tratto della sua personalità che deriva anche dalla sua comunità di appartenenza, non lontano da Pinerolo, che contribuì alla sua formazione internazionale e progressista. «Nel microcosmo delle valli valdesi, già nell’Ottocento c’era un alto tasso di alfabetizzazione tra le persone», spiega la pastora Ribet. Che riconosce nella storia di Poët la prospettiva europea e l’orizzonte di diritti (femminili) che contraddistinguono la chiesa riformata valdese.
Dello straordinario esempio che questa storia rappresenta per l’avvocatura e per le battaglie di genere nel mondo delle professioni ha parlato Cesarina Manassero, la quale ha sottolineato il ruolo di Poët come «prima avvocata internazionalista», la cui voce si è diffuso nel mondo attraverso i congressi ai quali era invitata. «Il faro che ha guidato Lidia Poet era proprio quello di promuovere la cultura a tutti i livelli, in modo trasversale, perché era convinta che le donne dovessero essere prima di tutto alfabetizzate, come presupposto per riuscire a ottenere i diritti che le spettano», ha sottolineato la presidente del Cpo. Quei diritti che le donne hanno conquistato dentro e fuori i tribunali, almeno in parte.