UNO. Gli appuntamenti in Parlamento come quello di stamane sono serviti, da circa 70 anni, per capire se il Presidente del Consiglio può contare sulla maggioranza e la fiducia di deputati e senatori. Ma questa volta lo scenario è capovolto. La maggioranza dei parlamentari dovrà verificare se riesce a strappare la fiducia e il consenso del presidente del Consiglio che, intanto, ha già presentato le dimissioni giudicando venute meno le condizioni per poter continuare a governare l’Italia con profitto.

Sia chiaro, non siamo di fronte a un peccato d’orgoglio o di presunzione di Mario Draghi, ma soltanto al suo convincimento che non è vero che vi sia l’accordo necessario tra partiti e parlamentari per continuare a dare senso allo sforzo eccezionale del suo (ampio) governo per tenere a galla e far progredire un paese che rischia di andare a fondo.

Lo scatto di Draghi, infatti, s’è innescato quando tra i partiti che avevano fatto a gara per entrare nel suo governo (sola eccezione FdI della Meloni e Italiaexit) è diventata evidente la spinta della propaganda elettorale e il tentativo di rovesciare o almeno indebolire il cuore della sua strategia politica, che è strategia nazionale ma soprattutto europea e occidentale. Questo perché Draghi crede possibile un rilancio del nostro paese solo all’interno di una spinta europea. Che tali attacchi siano stati scatenati nel tentativo di recuperare qualche pugno di voti in più alle elezioni che mese più mese meno dovranno comunque svolgersi, o per ragioni più di fondo, è, al momento, una questione secondaria.

DUE. Stamattina ne sapremo di più. La pressione internazionale (soprattutto nell’ambito di chi tifa unità d’Europa) e del paese perché Draghi ritiri le sue dimissioni e continui il suo lavoro ha visto sforzi e partecipazione inediti nel nostro paese. Ma si farebbe un grave errore a immaginare che il problema sia solo questo. È invece credibile immaginare che Draghi stia valutando attentamente se può riprendere il suo lavoro (italiano e internazionale) da dove l’ha lasciato per portarlo avanti o se giudica ormai irreversibili le spinte a utilizzare i mesi che ci separano dalle elezioni come una lunga, e per il paese devastante, campagna elettorale nutrita di propaganda e furbizie. È tutto qui il nocciolo del problema.

Il primo radicale spostamento dal tavolo della soluzione dei problemi a quello della campagna elettorale l’ha provocato il più ristretto gruppo dirigente del M5S. Non per un atto di forza ma per l’esplodere delle proprie debolezze. Privo di qualsiasi progetto, a parte quello della sopravvivenza dopo il consumarsi delle fumisterie di Casaleggio e Grillo dell’Uno vale Uno, Conte ha cercato spazio attaccando il punto più delicato della strategia del governo: la politica estera ( così avviando, tra l’altro la prima scissione ufficiale dei 5S con l’uscita di Di Maio). Draghi giudica l’aggressione di Putin all’Ucraina come un attacco sferrato prima di tutto alla costruzione dell’unità Europea. Conte ha tentato, per primo e in gara con Salvini, di alleggerire le responsabilità di Putin rimettendo quindi in discussione, per indebolirlo, il centro strategico della politica draghiana ( sul punto rileggere l’editoriale del 17 luglio di Sergio Fabbrini sul Sole24Ore).

C’è questo retroterra dietro la determinazione con cui Draghi ha fin qui tenute ferme le sue dimissioni. Ed è curioso che Enrico Letta, che sembra condividere in pieno le posizioni di Draghi sulla politica estera abbia continuato a soccorrere o comunque non abbia spezzato con radicalità qualsiasi rapporto con il Contismo, l’ultima scia del dileguarsi del M5S.

TRE. Comunque andrà a finire arriveremo a una svolta che interroga tutte le forze politiche del paese. Tabacci, che con Draghi ha una lunga consuetudine e che è stato da lui scelto come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del suo governo, ha spiegato in queste ore in un’intervista alla Stampa quanto potrebbe essere grave la crisi che si aprirà nel paese per la rottura dei 5S. Ha anche elencato le furbizie di quanti pur facendo finta di sostenere Draghi lavorano per elezioni immediate. Insomma, una specie di “campo largo” che lavora contro le scelte fondamentali che hanno preso vita nell’anno e mezzo che abbiamo alle spalle. Ma Tabacci ritiene che la partita in nessun caso sia chiusa, neanche se si dovesse giungere ad elezioni subito. Ritiene che esista nel paese una larga area Draghi che non potrà che riversare il suo appoggio alle forze che con decisione punteranno sulla continuazione futura del progetto che ha preso corpo da quando l’ex presidente della Banca Europea ha assunto la direzione del governo in Italia.

«Se si andasse a votare - dice Tabacci - il centrosinistra dovrebbe presentarsi con una larga coalizione dichiarando fin da subito che, se vincesse, l’unico premier possibile sarebbe Mario Draghi». Per Tabacci «Ci vorrebbe uno schieramento ampio di centrosinistra, che si ispiri ai progressisti, agli ambientalisti, alle forze più responsabili del paese - ben rappresentate dall’appello dei sindaci - e che guardi all’asse Atlantico come punto di equilibrio dell’assetto mondiale». Se questo schieramento vincesse, grazie anche all’area Draghi nata come area d’opinione in questo anno e mezzo, e se vincesse le elezioni per proporre a Mattarella di chiamare Draghi alla presidenza del governo, Draghi non potrebbe dire no. Sembra il “campo largo” rimesso coi piedi a terra.