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Erdogan, presidente della Turchia
A che gioco sta giocando Erdogan quando afferma che i miliziani di Hamas «non sono dei terroristi ma dei liberatori»? Se dovessimo prendere alla lettera le parole pronunciate dal presidente turco durante l’ultima riunione del suo partito (Akp) potremmo tranquillamente situare Ankara nel novero dei nemici giurati di Israele, al pari dell’Iran e di Hezbollah in Libano. E senza dubbio il sinistro endorsment del “sultano” al movimento islamista palestinese fa pensare a una netta scelta di campo: «Hamas combatte per liberare il suo popolo, mentre le azioni di Israele sono paragonabili a quelle di un’organizzazione terroristica» ha concluso Erdogan poco prima di annunciare di aver annullato la sua visita a Tel Aviv a causa «delle azioni disumane dell’esercito israeliano a Gaza che stanno assumendo le dimensioni di un genocidio».
Eppure, nonostante la netta presa di posizione, Erdogan aspira ancora, e forse più che mai, a diventare il grande mediatore della nuova crisi in Medio Oriente: «Non ho alcun problema con lo Stato di Israele» ha precisato, spiegando che lui lavora senza pregiudizi per «il cessate il fuoco da entrambe le parti». Un po’ come è parzialmente accaduto nel conflitto tra Russia e Ucraina quando era riuscito a strappare un provvisorio accordo per il transito del grano.
Per comprendere il significato delle dichiarazioni del presidente turco bisogna partire innanzitutto dalla sua ambizione primaria: assumere la leadership del mondo musulmano di fronte alla profonda disunione e litigiosità dei paesi arabi da una parte e all’estremismo del blocco “iraniano” dall’altra. Nella guerra geopolitica tra Ryad e Teheran in corso da decenni, la sua Turchia può rappresentare una credibile “terza via”, potenza regionale protettrice delle masse islamiche diseredate ma capace allo stesso tempo di avere forte influenza sui tavoli delle cancellerie occidentali.
È l’ambiguità strutturale del regime di Ankara, paese membro dell’Alleanza atlantica con la vocazione di entrare, prima o poi, nel club dell’Unione europea, ma con lo sguardo necessariamente rivolto verso le nazioni musulmane e quindi grande sponsor della causa palestinese. Il supporto negli ultimi anni si era fatto più tiepido tanto che lo stesso movimento islamista palestinese aveva criticato a più riprese la doppiezza di Erdogan e forse anche per questa ragione il presidente turco ora tenta di riconquistare credibilità tra i signori di Gaza. Un equilibrismo diplomatico e un tatticismo costante, dettato da interessi concreti e non da astratte intemerate ideologiche.
Quindi vengano pure le dichiarazioni d’amore per Hamas e i suoi mujaeddin ma di certo non ci sarà nessuna rottura con lo Stato ebraico con il quale, a partire dal 2020, la Turchia ha avviato un processo di riavvicinamento se non proprio di cooperazione economica. Come ad esempio il faraonico progetto di gasdotto che, dal giacimento israeliano “Leviatano”, arriverà verso i paesi europei passando per l’appunto dalla Turchia, una grande pipeline che porterebbe miliardi di lire nelle esangui casse dello Stato turco, consentendo all’Europa di diversificare il proprio approvvigionamento energetico a causa della guerra russo-ucraina.
Insomma anche nei prossimi mesi Erdogan continuerà a tessere la sua trama diplomatica giocando su più tavoli, ammonendo l’Occidente ma non rinunciando parallelamente a nessun vantaggio materiale dalle relazioni economiche con l’Ue, gli Usa e, naturalmente Israele.