Dopo esattamente 9 anni, perché lunedì prossimo cade pure la ricorrenza del probabile pestaggio che uccise Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco accusa due colleghi suoi presunti correi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, che, ha dichiarato ai pm, avrebbero materialmente e selvaggiamente pestato il geometra romano, all’epoca 31enne, morto 6 giorni dopo. Come dice ancora la sorella della vittima, «finalmente oggi la verità che noi sosteniamo da sempre entra in un’aula di giustizia, ed entra con le parole di uno degli stessi imputati». È una didascalia appropriata: Tedesco in realtà non prende mai la parola, all’udienza di ieri del processo bis in corso di svolgimento a Roma. Ha parlato il suo avvocato, certo, Eugenio Pini, che ha dichiarato ai cronisti la «impossibilità», per il suo assistito, «di farsi avanti prima». Lo avevano indotto a tacere i coimputati: gli autori materiali e soprattutto il superiore, maresciallo Roberto Mandolini, a sua volta a processo per gli stessi reati contestati a Tedesco, falso e calunnia: «Tu gli devi dire che stava bene», consigliò l’allora comandante della stazione Appia, dove si sarebbe consumato il massacro.

Ieri però le parole di Tedesco sono risuonate per voce del pm che sostiene l’accusa davanti alla prima Corte d’assise del Tribunale di Roma, Giovanni Musarò. È lui a raccontare che lo scorso 9 luglio, e poi in altre due successive occasioni, Tedesco è stato da lui ascoltato e che ne è venuta fuori l’ammissione del pestaggio, a cui l’appuntato non avrebbe preso parte e che avrebbe anzi cercato di «fermare», salvo poi nasconderlo nelle successive testimonianze.

Il racconto è mostruoso e fin troppo dettagliato. «Di Bernardo si voltò, colpì Cucchi con uno schiaffo violento in pieno volto. Allora D’Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: ‘ Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete’». Non servì, i due aguzzini continuarono e «Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo, in senso contrario, che gli fece perdere l’equilibrio provocando una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di aver sentito il rumore». A quel punto il correo- accusatore sostiene di aver spinto uno dei suoi due colleghi assatanati, Di Bernardo, ma «D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra» Fosse andata esattamente così, per l’autore del calcio in faccia la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale potrebbe risultare stretta. Ma sono congetture su un processo a questo punto tutto da scrivere. Colpisce di sicuro, invece, la puntualità della descrizione di Tedesco a ben 9 anni di distanza da quella notte.

E però, l’odore un po’ bruciacchiato di questa svolta processuale non cela la chiara e condivisibile sensazione che Ilaria Cucchi descrive: «Finalmente oggi la verità entra in un aula». Così come resta il disgusto per il “movente”, se così lo si può definire: Di Bernardo e D’Alessandro, che fermarono Cucchi nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, si sarebbero inviperiti perché il geometra opponeva resistenza nel sottoporsi alle procedure di fotosegnalazione, lì nella stazione Appia dei carabinieri. Una rappresaglia criminale.

La brutalità dei militari è alla base del confronto a distanza fra Ilaria e Matteo Salvini. «Oggi mi aspetto le scuse del ministro dell’Interno. A Stefano e alla nostra famiglia per tutto quello che ha sofferto», dice la sorella della vittima. Il ministro fa in fondo il suo dovere, cioè da una parte tende la mano e dall’altra difende l’onore delle forze dell’ordine: «Sorella e parenti sono i benvenuti al Viminale. Eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi».

Qualcosa del genere torna anche nelle parole dell’avvocato Pini, difensore di Tedesco: «Questo è uno snodo significativo per il processo ed è anche un riscatto per il mio assistito e per l’intera Arma: gli atti dibattimentali e le ulteriori indagini individuano in Francesco Tedesco il carabiniere che si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, che lo ha soccorso e che lo ha poi difeso». In realtà le dichiarazioni rese da Tedesco ai pm non sono ancora formalmente agli atti, ma il sostituto della Procura di Roma Musarò le ha comunicate come previsto per dare alle parti la possibilità di predisporsi alle nuove, successive fasi, a cominciare dalla decisiva deposizione in aula che il carabiniere “pentito” dovrà rendere. Dovrebbe anche confermare un’altra circostan- za segnalata sempre dal pm: l’annotazione di servizio che lui stesso avrebbe redatto la notte della morte di Stefano, «assolutamente importante per la ricostruzione dei fatti». Quel documento, ha spiegato ieri in aula Musarò, «è stato sottratto e non ce n’è più traccia». Il quinto imputato, il carabiniere Vincenzo Nicolardi, continuerà a rispondere di calunnia nei confronti degli agenti penitenziari assolti nel primo processo. Certo si aggrava invece la posizione del maresciallo Mandolini. Stefano «stava bene», “suggerì” il comandante a Tedesco. Che a luglio si è finalmente ricordato di aver invece visto Stefano «molto provato» dopo il pestaggio. Tardi. Ma per la verità, come dice Ilaria, non è mai troppo tardi.