Domenica scorsa Erdogan ha vinto le elezioni presidenziali ottenendo il 52 per cento dei consensi mentre il suo sfidante Kilicdaroglu è rimasto fermo al 48 per cento. Una vittoria sicura, ma non un trionfo, per il “sultano” che aveva già dovuto subire l’onta di non affermarsi al primo turno, così come al contrario si aspettava. Una vittoria di Pirro, secondo un autorevole commentatore turco, perché non sarà facile per il presidente confrontarsi con una Turchia spaccata verticalmente in due, con le tre maggiori città del paese (Istanbul, Ankara e Izmir), le maggiori produttrici di reddito, che hanno confermato la loro fiducia all’opposizione, e con crisi economica, inflazione e carovita che investono strati sempre più ampi della popolazione.

Perché ha vinto il sultano e perché ha perso lo sfidante? Più facile rispondere alla seconda domanda, più difficile alla prima. Kilicdaroglu ha perso soprattutto perché era un candidato debole fin dall’inizio, debole sia come autorevolezza personale, sia come espressione di duna coalizione di partiti, di cui uno solo importante, e gli altri cinque di contorno e nient’affatto coesi, tant’è che dopo 24 ore si stanno già sfilando dall’accordo politico. Un personaggio debole che nel tentativo di recuperare consensi a destra ha scavalcato Erdogan sullo spinoso tema dei rifugiati siriani e sull’annosa questione dei curdi. Ha fatto venire i brividi sentirlo affermare una settimana fa che non avrebbe restituito la loro carica ai sindaci dei comuni del Kurdistan curdo che il governo aveva estromesso perché, a suo dire e solo a suo dire, collusi con i terroristi del PKK.

Perché ha vinto Erdogan?

Più difficile dirlo. Certamente perché avendo in mano tutta quanta l’informazione nazionale (con i giornalisti incarcerati o intimiditi e le testate o i canali TV chiusi) la campagna elettorale non si è svolta democraticamente. Poi la valanga di voti arrivati dai turchi residenti all’estero: un bacino inossidabile e impermeabile all’erosione per il conservatorismo turco. Ma tutto ciò non basta per spiegare il terzo mandato affidato all’autocrate.

C’è il fatto che la sua politica monetaria, col tenace rifiuto di stringere il credito a fronte di un’inflazione che dura da cinque anni con picchi a tre cifre, dà fiato ai suoi storici alleati sociali: la grande industria, specie l’edilizia, e le industrie medie e anche piccole, e rassicura vasti strati della popolazione, anche se si tratta di una rassicurazione illusoria perché presto si arriverà al redde rationem. E chi non si fida, e sono in molti, infatti ha votato per l’opposizione.

Ma quale è la sua forza nelle aree anatoliche, rurali e agricole ( di un’agricoltura vastamente industrializzata, va detto), che lo hanno seguito massicciamente, anche laddove i disastri del dopo-terremoto avrebbero dovuto indurre ad un suo crollo elettorale? La continua riaffermazione di valori che fanno capo all’islamismo, che dieci anni fa era abbastanza soft e che oggi è decisamente integrale, se ancora non integralista: la donna subordinata al maschio di famiglia, la famiglia unica e difficilmente divisibile, con violenza incorporata. L’islam come dettato che pretende di invadere con le sue regole la vita civile di ognuno. Di queste dinamiche si ha una percezione indistinta se si vive nelle grandi metropoli, ma una consapevolezza precisa se si vive nelle campagne. Meno forse ha giocato la ricostruzione dell’immagine del paese come attore internazionale, anche se gli ha dato certamente una spinta psicologica facendo leva sul diffuso nazionalismo: perché si vota anche con la testa e col cuore, ed anche con la pancia, mica solo sul filo della razionalità e della convenienza.

E i diritti, o quel che ne resta in Turchia? Impossibile comprimerli ancora di più, dirà qualcuno, purtroppo sbagliando.

Nel Paese resta molto poco di ciò che noi intendiamo per diritti civili e umani. Lo scorso anno è stato disdettato l’accordo di Istanbul che, sia pure approssimativamente e in modo vago, tendeva a tutelare le donne: a quando una legge che individuerà attenuanti per chi uccide una donna? Giornalisti in carcere e perseguiti a migliaia ogni anno per il reato di “insulti al presidente”: a quando il bando da ogni intervento anche sui social network?

Al contempo gli avvocati vanno e rimangono in galera: a quando l’inveramento delle parole del Ministro degli Interni per i quale per abbattere il PKK ( il partito dei lavoratori curdo) basterebbe arrestare tutti i suoi avvocati? Già si vietano i gay pride, a quando la messa fuori legge dei gay? Lo sappiamo, non c’è limite alla compressione dei diritti e la loro cancellazione è sempre possibile. Consoliamoci con le parole di Demirtas, l’ex segretario del partito di sinistra HDP rinchiuso in galera da sette anni: “Con queste elezioni l’opposizione al regime ha dimostrato di esistere nella società. Deve imparare ad essere più forte anche politicamente”.