Quel che è capitato al sociologo, filosofo e docente universitario Boris Kagarlitsky rappresenta plasticamente la deriva kafkiana e la crudeltà labirintica del sistema giudiziario russo, diventato un inesorabile strumento di repressione nei confronti degli oppositori del Cremlino. Pacifista convinto, lo scorso dicembre Kagarlitsky era stato condannato a pagare una multa di circa seimila euro per aver criticato il conflitto in Ucraina sulla piattaforma web Rabkor che conta oltre 100mila iscritti e di cui è il fondatore. Nei giorni successivi all’invasione militare russa aveva infatti sottoscritto il “Manifesto dei socialisti contro la guerra”, parlando sul suo canale Telegram di «macabra avventura», paragonando l’Ucraina alla Polonia sotto occupazione nazista e pronosticando una cocente sconfitta militare per Mosca.

Quanto basta per meritarsi il consueto ventaglio di accuse da parte delle autorità: giustificazione del terrorismo, denigrazione dell’esercito e la vaga qualifica di “agente straniero”. Lo scorso luglio, nel quadro di una vasta retata di oppositori e di voci critiche verso la guerra a Kiev, Kagarlitsky era stato arrestato e trasportato nella città di Syktyvkar (oltre 1300 chilometri a nord est di Mosca) dove un tribunale lo aveva messo in detenzione preventiva. Interrogato sulla sorte di Kagarlitsky durante una conferenza stampa, Vladimir Putin disse con candore di non sapere chi fosse: «È la prima volta che sento pronunciare questo nome».

Sessantacinque anni, figlio di due noti critici letterari, marxista democratico, anche durante il regime sovietico Kagarlitsky entrò in rotta di collisione con le autorità per via dei suoi articoli che predicavano un socialismo libertario, ispirato dal filosofo Herbert Marcuse, autore ufficialmente proibito dall’ortodossia sovietica. Nel 1982 venne arrestato per “attività anticomuniste” ma poi graziato l’anno successivo. Dopo il crollo del regime si avvia a una brillante carriera accademica, diventando direttore dell’Istituto di studi sulla globalizzazione e i movimenti sociali ( IGSO), professore alla Scuola di scienze sociale ed economiche di Mosca e ricercatore presso l’Accademia delle scienze. Nel frattempo interviene nel dibattito politico su diverse riviste, come Levaja Politika ( Politica di sinistra) di cui è stato caporedattore, il Moscow Times e la Novaja Gazeta della compianta Anna Politkovskaja, difendendo il suo marxismo non ortodosso, schierandosi con i movimento no- global e criticando l’ascesa dello zar Putin “da sinistra”, il che lo rende un caso unico in un panorama politico in cui i pochi oppositori sono quasi tutti liberali e filo occidentali dichiarati. Kagarlitsky è rimasto in cella per cinque mesi: il 12 dicembre lo hanno rimesso in libertà e condannato a pagare la multa di seimila euro. Una pena relativamente morbida per la Russia putiniana, tanto che la procura militare ha contestato la sentenza chiedendo un processo di appello. Così ieri per Kagarlitsky è giunto il colpo di scena, da incubo. Un tribunale militare ha infatti trasformato la sanzione economica in cinque anni di reclusione da scontare in una colonia penale. Prima di venire deportato ci sarà il verdetto della Corte Suprema della Federazione Russa che potrebbe, in teoria, rovesciare l’appello. Ma è un’ipotesi più che remota considerando lo stesso organismo ha recentemente messo al bando i movimenti Lgbtq per «estremismo».