«Sono nato il 26 febbraio 2023». Mojtaba Rezapour Moghaddam ha 47 anni. Ma per lui la vita è iniziata solo quando è uscito vivo dal mare, mentre attorno a lui galleggiavano solo cadaveri. Adesso fa il gelato nel laboratorio di un locale sul lungomare di Crotone, dove è arrivato lo scorso anno, spinto dalle onde forti di un mare forza 4, che ha inghiottito i suoi «fratelli». Perché dopo giorni di mare, quella era la sua famiglia. Quella di sangue, rimasta in Iran, non ne vuole più sapere nulla di lui: Reza è contro il velo e dalla parte delle donne scese in piazza contro il governo. Quel governo che a sua madre piace, tanto che ora lei dice di non avere più un figlio.

Suo fratello, poliziotto, lo chiama bastardo e vorrebbe vederlo in prigione. In quella terra che una volta chiamava casa gli sono rimasti sua moglie e i suoi due figli, che conta di far arrivare in Calabria nel giro di due-tre mesi. E poi vuole chiudere i conti con il suo passato. «Il 21 febbraio 2023 sono partito da Istanbul. E sono arrivato in Italia il 26 febbraio. Su quella barca eravamo almeno in 185. Com’è andata ormai lo sapete tutti», dice, mentre al suo fianco siede il suo avvocato, Pietro Vitale, che lo assiste in Tribunale in quanto vittima di una strage. Quella della notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un caicco di legno marcio, chiamato “Summer Love”, si è spezzato schiantandosi contro una secca. A una manciata di metri dalla riva, dove ad aspettare quelle persone non c’era lo Stato, ma tre pescatori che hanno provato a tirare fuori dallo Jonio quanti più corpi vivi possibile.

Un anno dopo, negli occhi di Reza ci sono ancora gli sguardi dei più piccoli. «Penso a quei bambini sempre. Li sogno tutte le notti. Quando stavo su quella barca giocavo con loro, li abbracciavo. Erano come i miei figli, che sono rimasti in Iran». Dice Reza che si trovava ad un metro dal punto in cui la barca si è spezzata. «Ho contato fino a cinque e l’acqua era già arrivata alla gola. Non sapevo cosa fare. Non vedevo nulla. Secondo me Gesù ha afferrato la mia mano e mi ha tirato fuori da lì, perché io ero sicuro di andare a fondo. Avevo vestiti pesanti, inzuppati d’acqua, il mare era agitato, c’era vento. Sapevo di dover nuotare, ma non riuscivo. Nessuno ci riusciva».

Ma perché è scappato dall’Iran? «Per non morire. Per i miei bambini». La sua storia inizia con le proteste dopo l’omicidio di Mahsa Amini, la giovane uccisa per aver indossato “male” il velo. Si trova in strada, dove si protesta con i clacson. Una donna viene trascinata fuori dall’auto dalla polizia, che vuole aggredirla. Lui si avvicina con i suoi amici, prova ad aiutarla. Cerca di tranquillizzare i poliziotti: «Cosa vi ha fatto? Guida, può suonare il clacson», dice Reza. Poi qualcuno accoltella un poliziotto. Lui non c’entra, non vede niente, ma si mette male e va via. Passa dal suo supermercato, dove dà lavoro a 40 persone. Poi torna a casa. Quando si sveglia, il giorno dopo, una delle sue dipendenti lo chiama. «C’è la polizia, ti cercano», gli dice. Lui si collega alle telecamere interne con il cellulare. Vede gli uomini in divisa, dentro e fuori dal supermercato. E decide di non muoversi da casa. Aspetta ancora un po’. Ne parla con la moglie, che è preoccupata. Va, gli dice. Lui parte, arriva nel nord dell’Iran con un amico, aspetta. Intanto la polizia va a cercarlo a casa. Mettono tutto sottosopra, frugano sotto il letto. E lei capisce che il problema è serio. «Devi lasciare l’Iran», gli dice sua moglie.

Reza va ad Istanbul, sperando sempre che la polizia capisca che non c’entra nulla con quell’accoltellamento. Rimane per un po’ da un amico, in un b&b dove era solito alloggiare quando viaggiava per piacere, con la famiglia. Ma la polizia va a cercarlo fin lì, mostrando la sua foto alla gente. Vogliono prenderlo a tutti i costi. Si accorge allora di dover partire, di nascosto, su un barcone assieme ad altre persone in fuga. Trovare qualcuno che organizzi un viaggio è semplicissimo: «Basta chiedere ad un bambino, saprà dirti con chi parlare». Servono soldi. La polizia ha però messo tutto sotto sequestro. Reza può contare solo su un magazzino di sua proprietà, di cui i militari non sanno nulla. È pieno di riso. Sua moglie e un amico riescono a venderlo e lui recupera i soldi per partire. Versa 9200 euro, una cifra altissima. Sale su un camion, che presto si riempie di persone. Sono circa in 70, poi diventano 180, su due diversi mezzi. Che li portano di notte fino ad Izmir. «A quel punto eravamo già una famiglia - racconta Reza -. C’erano donne, bambini, tutti attaccati. Ci siamo presi per mano e siamo andati fino alla barca. Eravamo agitati, ma anche tranquilli, perché sapevamo che saremmo arrivati in Italia, dove saremmo stati in salvo».

Ma la prima barca, dopo qualche ora, ha dei problemi. Il motore si spegne. «Noi avevamo paura, ma ci hanno detto di aspettare. Poi è arrivata un’altra barca e ci hanno fatti sistemare nella stiva». Quella bagnarola potrebbe contenere solo un quarto di loro, che per starci raccolgono le ginocchia al petto. C’è chi, scendendo, lo prende continuamente a calci, un po’ per forza, un po’ per ripicca. Ma almeno sono tutti al sicuro. O così sembra. «Ci hanno concesso di salire su solo dopo due giorni, per fumare e fare un giro. Il 25 febbraio ci hanno detto che saremmo arrivati in Italia. Ma che avremmo dovuto aspettare la notte, le tre o le quattro, per scendere, mentre la barca sarebbe tornata a Istanbul». Quando il caicco arriva vicino alla costa, vicino alla spiaggia di Steccato di Cutro, i migranti salgono sul ponte. Ma qualcosa va storto: la barca si spezza e la gente finisce in mare. «Secondo me tutti quelli che sono morti sono morti bevendo acqua salata mista a gasolio. Era come avere la colla in gola. Erano tutti giovani».

Non sanno nemmeno di essere a due passi dalla spiaggia. Non vedono le luci, non capiscono nulla. I vestiti sono pesanti, come una zavorra, gli occhi si chiudono. Solo dopo qualche minuto Reza vede delle luci. Sono i pescatori che, dalla spiaggia, si accorgono che in acqua c’è l’inferno. «Ho capito che dovevo andare in quella direzione. Non so quanto sono rimasto in acqua». Reza afferra un pezzo di legno, che gli taglia una mano. E quel pezzo di legno gli sfugge più volte. Perde sangue, è dilaniato dal dolore, prova a nuotare, ma non può resistere alle onde, che lo risucchiano e lo sputano fuori, quattro, cinque, dieci volte. «Sarà durato 15, 20 minuti. Non lo so. Sono andato a sbattere contro i sassi. Ho afferrato il braccio di una bambina, cercando di salvarla, ma è sparita sotto i miei occhi. Poi, quando ero ormai sicuro di essere morto, un’onda grandissima mi ha fatto finire sulla spiaggia. Avevo freddo. Credo di essere rimasto immobile per cinque minuti. Ho visto attorno a me altre persone - racconta -. Sembravano dormire. Poi ho capito: erano morte». Reza si guarda intorno, cerca i volti di quelli che ormai sono suoi amici. «Pensavo di trovarli tutti fuori, ma poi ho capito che non c’erano più. Ho trascorso cinque giorni con loro. Erano come fratelli, sorelle, eravamo una famiglia. Per i bambini ero come un padre. E ora non ci sono più».

Quando torna in sé Reza sente la voce dei pescatori, che tentano di salvare gli altri naufraghi. Ma la metà dei compagni di viaggio è ormai morta. «Poi non ricordo molto, è tutto nero». Ma com’è stato possibile? «Avevo sentito dire che di solito, durante gli sbarchi, quando si è abbastanza vicini alla costa, si chiama la polizia. Invece loro volevano salvare la barca. Una barca da 20mila euro, costata quanto il “biglietto” di due persone. E per una barca da 20mila euro hanno accettato di farci morire. Hanno sbagliato tutto». E i soccorsi? L’Italia ha ignorato quella barca carica di persone? «Per tutto quest’anno ho pensato che il governo italiano e la polizia non ci vedessero - dice Reza -. Voglio continuare a pensare che sia andata così».

Dopo il salvataggio Reza aspetta per nove giorni nel campo di Sant’Anna, a Crotone. A Palazzo Chigi, insieme agli altri superstiti, non ci vuole nemmeno andare. E non vuole finire nel giro dell’accoglienza, vuole lavorare. «Non sono qui per i soldi, nel mio Paese stavo bene, ero famoso. Sono qui perché non sono morto in Iran e non sono morto nemmeno a Cutro. Ho scelto di trovare un lavoro. E aspetto la mia famiglia. Ora ho cento fratelli e 200 sorelle. Sono calabrese. Morirò a Crotone».