Il messaggio è chiaro anche se Volodymyr Zelensky ha provato a edulcoralo con un po’ di politichese: Kiev è pronta a mollare la Crimea. In un intervista rilasciata a Trey Yingst, corrispondente della rete “trumpiana” Fox news, il presidente ucraino, per la prima volta dall’invasione russa del febbraio 2022, sembra rinunciare all’opzione militare per riottenere la penisola: «Non possiamo perdere decine di migliaia di persone per la Crimea, dobbiamo pensare a recuperarla attraverso la diplomazia».

Una prospettiva, quella della riconquista tramite negoziati, che sembra appartenere al mondo dei sogni, anche perché qualsiasi piano di pace non può prescindere dalla cessione anche parziale di territori. Non è un caso che Zelensky abbia scelto Fox news, molto vicina al presidente eletto Donald Trump, per annunciare il cambiamento di linea sulla Crimea, lui che per oltre mille giorni di guerra ha sempre affermato di voler difendere con le armi l’integrità territoriale dell’Ucraina e che mai avrebbe ceduto alla prepotenza di Vladimir Putin.

Ma sul fronte di guerra le cose stanno andando male; dopo l’offensiva dello scorso agosto nella regione russa del Kursk dove l’esercito ucraino per alcune settimane ha sorpreso e persino fatto arretrare le forze nemiche, i militari del Cremlino hanno ripreso tutti i territori perduti conquistando, nella modalità “rullo compressore”, migliaia di chilometri quadrati oltre alla frontiera ucraina. La piccola speranza di un’implosione dell’armata russa si è rivelata per quello che era: una speranza.

Rispondendo a una velenosa domanda di Yingst sul probabile taglio degli aiuti militari americani con l’insediamento dell’ amministrazione Trump, Zelensky ha detto che il suo Paese è pronto a combattere «anche da solo», per poi aggiungere che «senza il supporto degli Stati Uniti siamo probabilmente destinati a perdere la guerra». Anche perché l’impegno degli alleati europei per la causa ucraina è senz’altro sincero, ma del tutto esiguo confrontato ai miliardi di dollari fin qui ricevuti dagli Usa.

L’ultima tranche di aiuti statunitensi con missili a lungo raggio e mine antiuomo rappresenta il colpo di coda del presidente uscente Joe Biden che dall’inizio del conflitto ha speso le sue residue forze per supportare Kiev e contrastare l’espansionismo regionale del Cremlino.

Ora la musica è decisamente cambiata e la «paghetta» americana sta per finire, per citare le inopportune parole di Don Junior, figlio e ormai consigliere del presidente eletto. I rapporti “cordiali” (e forse anche qualcosa di più) tra Donald Trump e Vladimir Putin sono noti al mondo, come è nota l’ingerenza della Russia nelle vicende elettorali d’oltreoceano in particolare nelle presidenziali del 2016 che videro il trionfo del tycoon ai danni di Hillary Clinton, ampiamente “dossierata” dagli hacker putiniani (fu il cuore del cosiddetto Russiagate).

Come ha scritto in un libro di memorie uscito quest’anno Herbert Raymond McMaster, ex consigliere di Trump durante il primo mandato «il fatto che la maggior parte degli esperti di politica estera a Washington sostenessero un approccio duro nei confronti del Cremlino sembrava solo spingere il presidente ad adottare l’approccio opposto». D’altra parte è stato lo stesso Trump a sostenere che con lui alla Casa Bianca «la guerra sarebbe finita in due giorni» e a promettere durante la campagna elettorale di trovare un accordo con i russi.

Il timore di Zelensky è che il secondo mandato del tycoon possa suggellare un patto informale tra Washington e Mosca che abbandoni l’Ucraina al proprio destino. L’intervista a Fox e le aperture sulla Crimea sono un tentativo di dialogare a distanza con Trump per convincerlo a non lasciare Kiev.

C’è poi il problema del consenso interno che, dopo mille giorni di guerra e di bombardamenti sulle città ucraine, è precipitato ai minimi storici. La gran parte della popolazione oggi vorrebbe solo mettere la parola fine alla guerra e da tempo si è convinta che non vale la pena di morire per la Crimea e, probabilmente, neanche per il Donbass.