I dati sono ancora parziali e le percentuali tutt’altro che stabilizzate. Tuttavia i risultati che arrivano dalle primarie hanno senz’altro il pregio di indicare una tendenza: non definitiva, però niente affatto trascurabile. Semplificando, si può dire così: nelle sezioni o nei circoli si affollano molti meno iscritti di una volta ma quelli che ci vanno votano massicciamente Matteo Renzi. Di fronte ad un simile stato di cose e al di là dei distinguo e delle contestazioni che sempre accompagnano occasioni come queste - i due sfidanti dell’ex premier insistono a marcare un fatto: che magari Renzi vincerà anche le primarie ma alle elezioni molto probabilmente porterà il Pd ad una sconfitta.

Stop, fermo immagine: blocchiamoci qui e proviamo a ragionare. Cosa significa un consenso interno così forte e che valore hanno le funeste previsioni per le politiche? Cosa significhi per Renzi è evidente: la riconferma di una leadership certamente meno granitica dei mesi scorsi e tuttavia, agli occhi dei militanti e dello zoccolo duro del partito, ancora accreditata di nessuna alternativa valida. Le motivazioni di Orlando ed Emiliano, invece, segnalano una forma di strisciante e insidiosa delegittimazione, che lascia intendere come la partita interna potrebbe anche riaprirsi una volta chiuse le urne delel politiche. Quale partita, e con quali possibili esiti? Il nodo politico - subdolo e pericoloso proprio in quanto non esplicitato - sta tutto qui.

In altri termini una volta che il risultati, anche dei gazebo, avranno reincoronato Matteo, che dinamica interna ci sarà nel Nazareno? Quale posto e quali margini Renzi riconoscerà agli oppositori e quale questi ultimi vorranno prendersi? Per comprendere la rilevanza dell’interrogativo bisogna rifarsi al copione andato in scena in questi ultimi tre anni nel Pd: Renzi pigliatutto da un parte; gli anti renziani via via sempre più determinati a marcare la loro differenza, dall’altra. Il che ha prodotto una conflittualità interna che da guerriglia è diventata scontro aperto: da un lato l’ex premier accusato di essere “ossessionato” da una minoranza vissuta come cascame da annientare; dall’altro una opposizione dipinta come conventicola di sabotatori da nessun’ altra voglia mossi se non di abbattere il tiranno capace di svellere il partito dal suo alveo e determinato a veleggiare verso lidi moderati estranei alla cultura e al Dna della sinistra. Alla fine l’esito è apparso scontato: scissione e ognuno per la sua strada.

Ebbene, se Renzi rivince riandrà in scena la stessa dinamica di prima, semplicemente cambiando i nomi degli antagonisti al segretario? Il Pd sarà sempre e comunque condannato ad essere un agglomerato litigioso e divaricato, una comunità dove il sospetto, la diffidenza, l’azzeramento della contendibilità la fanno da padroni?

Se così fosse, vorrebbe dire che l’esperienza non ha insegnato nulla, che tanti toni bellicosi generosamente sparsi dai contendenti hanno prodotto solo diatribe di cartapesta, tanto il risultato finisce per essere sempre lo stesso. Non un bello spettacolo, diciamo. Certamente non di quelli che spingono i cittadini a riavvicinarsi alla politica e ai partiti. Ragion per cui la questione politica assume contorni assai rilevanti e di essa devono farsi carico sia il vincitore che gli sconfitti. Se Renzi, cioè, indipendentemente dalla percentuale con cui vincerà, insisterà a non riconoscere nulla ai suoi oppositori interni, interpretando quel noi al posto dell’io che dovrebbe diventare la ragione sociale della sua rinnovata leadership solamente come la redistribuzione della torta con un gruppo più allargato di famigli, è evidente che lo scontro tornerà a infiammarsi zavorrando a quel punto mortalmente il Pd e rendendolo un partner di governo o di maggioranza sempre meno affidabile. Al tempo stesso se Orlando o Emiliano ( o chi per loro) si muoveranno ricalcando le orme lasciate da Bersani, Speranza e D’Alema, riapriranno passo dopo passo il capitolo della divaricazione fino all’allontanamento. L’ennesimo.

Di più. Se Renzi insisterà a fare il padre padrone, relegando i suoi oppositori al ruolo di figure subordinate e subalterne, restringerà in modo forse definitivo il perimetro della sua autorevolezza e capacità di dialogo con mondi, dentro ed fuori al partito, che da lui hanno preso le distanze. Se le minoranze interne si acconceranno a svolgere nient’altro che la parte di stucchevoli maschere polemiche perennemente concentrate nella ricerca dello sgambetto al leader, perderanno di significato e di ragion d’essere. E’ un problema di sostanza, non di forme o di liturgie. La democrazia interna delle forze politiche è espressamente prevista dalla Costituzione “più bella del mondo” ( articolo 49): citatissimo, è sicuramente uno dei più disattesi. Nelle altre formazioni e movimenti, il nodo è gordianamente reciso con un colpo di spada: tutti i poteri al leader e chi non è d’accordo si accomodi. Possibilmente fuori. Il Pd, va riconosciuto, è l’unico che ancora cerca sentieri di confronto riconoscibili, quello in cui la contendibilità ha un significato. Si tratta di un patrimonio fondamentale anche se, va detto, in buona parte dilapidato. Sapendo che probabilmente è suonata la campana dell’ultimo giro.