Non solo le vittime ma anche gli imputati hanno diritto alla privacy e che il loro nome non venga reso pubblico fino al giorno dell’eventuale condanna.

È il principio del name suprression, previsto dal sistema giudiziario della Nuova Zelanda che consente agli accusati di veder protetta la propria identità se questo può causare danni ingiusti e a lungo termine. Può essere applicato in diversi casi ad esempio per i minori (anche testimoni), solitamente viene invocata nei processi su presunti reati sessuali o quando la persona alla sbarra rischia di perdere il posto di lavoro.

La richiesta di name suppression va inoltrata prima di ogni udienza e rinnovata ogni volta, ma a quel punto giornali e televisioni non possono più pubblicare i nomi delle persone coinvolte. È una norma civilissima concepita contro i processi mediatici e che bilancia la tradizione anglosassone dei tribunali “di prossimità” aperti al pubblico e ai giornalisti.

Recentemente c’è stato un caso che riguarda un ex uomo politico di rilievo, non parlamentare, ma dirigente del suo partito, accusato di aver abusato di due adolescenti a West Auckland e Waikato tra il 1995 e il 1999. «Aggressione indecente» è il capo di imputazione che lui ha rifiutato dichiarandosi innocente. E ottenendo dal giudice la name suppression tra le proteste dei media che hanno evocato il consueto “bavaglio”. Le obiezioni dell’avvocato Ian Brookie per il quale svelare il nome del suo assistito avrebbe influito sul diritto a un giusto processo sono state accolte dalla giudice Anna Skellern: «La pubblicazione dell’identità trasformerebbe la storia in una questione politica nazionale durante un anno elettorale, piuttosto che in un rapporto del tribunale incentrato sui fatti del caso». Brookie è anche riuscito a dimostrare il danno concreto sulle opportunità di lavoro del suo cliente.

Sul sito web della Corte distrettuale di Wellington il giudice Sanjay Patel spiega perché la giustizia nell’era digitale deve imporsi una protezione sempre più accurata della privacy: «In passato, il pubblico si affidava principalmente a televisione, radio e giornali per le notizie giudiziarie. Una volta pubblicate o trasmesse, era difficile recuperare rapidamente le informazioni. Ma nell'era di Internet, le notizie sui tribunali rimangono disponibili a tempo indeterminato attraverso una ricerca facile e veloce. Ciò può avere un notevole impatto sulle persone coinvolte in procedimenti giudiziari. Una ricerca su Internet potrebbe rivelare che una persona è stata accusata di un reato anche se poi in seguito è stata dichiarata non colpevole. Reclami o informazioni pregiudizievoli per una parte che ottiene un processo equo potrebbero essere pubblicati su un blog o su una pagina social».Il principio del name cancel è stato più volte attaccato dalla stampa “kiwi”, che ha rivendicato il diritto di cronaca e una giustizia che “dev’essere vista per essere fatta” (must be seen to be done). Le parole del giudice Patel sembrano rispondere a quelle inquietudini: «La giustizia aperta ha dei limiti. Il "diritto di sapere" del pubblico deve essere bilanciato con altri interessi: di imputati, testimoni, vittime e bambini, in particolare se sono vulnerabili o vittime di reati sessuali, nonché interessi più ampi, inclusa la garanzia che i processi siano equi per tutti i soggetti coinvolti».