Mentre i droni militari stavano ancora cercando i resti dell’elicottero che trasportava il presidente iraniano Ebrahim Raisi, la Guida suprema della repubblica sciita Alì Khamenei pronunciava un rassicurante discorso ai comandanti delle Guardie Rivoluzionarie per spiegare che, in sostanza, nel regime non cambierà nulla. «La nazione non deve essere preoccupata o ansiosa poiché l’amministrazione e la politica andranno avanti come prima».

Questo lo sanno benissimo i milioni di oppositori e dissidenti che, alla notizia della morte di Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Admirabdollahian, hanno festeggiato in diverse città del Paese, in alcune regioni anche esplodendo fuochi d’artificio in cielo. Se la propaganda ufficiale piange Raisi come «un martire», per le vittime della repressione non era altro che un «boia», il capo di un governo che ha fatto arrestare, torturare uccidere migliaia di donne e di giovani scesi in piazza per mesi dopo l’uccisione della 22enne Mahsa Amini da parte della polizia morale nel settembre 2022. «Ci vuole una risposta ferma e severa», tuonò dopo le prime manifestazioni, dando carta bianca ai Pasdaran di spezzare il movimento. Almeno cinquecento i civili uccisi nelle strade, decine di migliaia gli arresti e migliaia le condanne, anche alla pena capitale di cui otto già eseguite tramite impiccagione. Oltre al manganello e al carcere, un’altra fissazione del religioso Raisi che vantava addirittura una discendenza diretta dal Profeta, era la morale pubblica, fervente sostenitore della polizia dei costumi, durante la sua presidenza ha intensificato i controlli sull’abbigliamento delle donne, in particolare sull’uso corretto del velo. È proprio in questo modo che ha perso la vita la povera Mahsa Amini, picchiata a sangue durante un controllo.

La grande passione per lo Stato di polizia e per i precetti religiosi non è riuscita a nascondere i fallimenti del governo, incapace di fronteggiare la crisi economica e sociale di una Paese stremato dalle sanzioni, di nuovo in piedi dal 2018, dove l’inflazione e la povertà galoppano impazzite. Il valore della valuta iraniana, il rial, è sceso al livello più basso mai registrato. A marzo, un dollaro Usa è stato venduto per più di 600mila rial. Il 63enne Raisi, ex magistrato ed ex responsabile della giustizia, era un fedelissimo di Khamenei e, secondo diversi osservatori, un suo potenziale successore al vertice del clero sciita. Affidabile ma privo di carisma, la sua vittoria alle presidenziali del 2021 contro i pochi candidati approvati dalla Commissione elettorale, ha fatto segnare il record storico di astensione: 51,2% su scala nazionale, con l’impressionante picco del 74% nella capitale Teheran. Impopolare in vita, impopolare da morto.

Nei suoi tre anni di mandato Raisi si è appiattito sui voleri della Guida suprema più di qualsiasi altro suo predecessore, dimostrando una lealismo zelante ai limiti della ruffianeria. Da Mohammad Khatami (1997-2005) a Mahmoud Ahmadinejead (2005-2013) a Hassan Rhouani (2013-2021) tutti i presidenti dell’Iran, prima o poi sono usciti dalla grazie di Khamenei e finiti nel dimenticatoio. Non l’ultraconservatore Raisi, tanto feroce con gli oppositori del regime quanto docile e accondiscendente con il suo protettore. Dalla Rivoluzione del 1979 alla presidenza della repubblica è stato sempre in prima linea nella violazione dei diritti umani; la sua carriera di magistrato lo portato nel cuore del sistema giudiziario iraniano. Nel 1988, da viceprocuratore di Teheran, ha condannato a morte centinaia di prigionieri politici e ha partecipato ai “massacri delle prigioni”, vere e proprie esecuzioni compiute dentro le mura dei penitenziari. L’ascesa è folgorante: Capo dell’Ufficio d’ispezione, vicepresidente della Corte suprema, procuratore generale e infine, nel 2019, presidente della Corte suprema. In quello stesso anno il suo nome finisce nella black list degli Stati Uniti per «complicità in gravi violazioni dei diritti umani».

Chi prenderà il suo posto si muoverà nello stesso solco, impiegando il pugno di ferro contro la dissidenza interna e mantenendo intatto lo schema strategico e militare di alleanze regionali con la Siria di Bashar al Assad, con Hezbollah in Libano e con le milizie Houti in Yemen. E la stessa, determinata, ostilità verso lo Stato di Israele.

La Costituzione iraniana prevede che, in caso di morte del capo dello Stato, si possa votare dopo cinquanta giorni, nel frattempo la carica è stata assunta ad interim dal vicepresidente Mohammad Mokhber, 68 anni, lobbista per diverse fondazioni religiosi e, naturalmente, anche lui ultraconservatore. Trattandosi di una procedura d’urgenza difficilmente il Consiglio dei guardiani della rivoluzione che controlla la Commissione elettorale approverà candidature riformiste o moderate che possano anche minimamente impensierire un regime alle prese con la peggiore crisi della sua stor