A distanza di vent’anni, il remake del bacio tra Halle Berry e Adrien Brody, miglior attore protagonista nel 2005 per The pianist, e quest’anno Oscar per The Brutalist, poteva far pensare a una grande distensione, velata dal ricordo triste di Morgan Freeman per l’amico Gene Hackman tragicamente scomparso. Invece no. Gli Oscar sono cinema, la realtà è altrove.

Avessimo dovuto annunciarlo noi, il vero vincitore della Notte degli Oscar, non avremmo avuto esitazioni. Perché è chiaro che su questa edizione non a caso, di fuoco, hanno pesato come macigni gli hollywoodiani, catastrofici incendi in California. Oltre ad aver rimandato i tempi delle nomination, e distrutto economia pubblica e finanze private di tanta gente di cinema, i roghi al Sud degli Stati Uniti hanno indebolito il già fragile stereotipo del divismo felice degli anni d’oro, contribuendo a un azzeramento di contenuti e strategie. Ne escono perdenti, in un’insolita coppia, cinema dei grandi incassi e d’essai, secondo una tendenza già invalsa anni fa e ora portata a definitivo compimento, al punto da far assomigliare il Dolby Theatre alla Croisette, per qualità ma anche imperscrutabilità delle scelte. E se, come in qualsiasi concorso artistico, molti valori verranno fuori alla distanza, e saranno soltanto l’ingresso e la permanenza nell’immaginario del pubblico a dare vita lunga alle pellicole, rileva che effettivamente, tra i tanti titoli in concorso, alcuni davvero innovativi, la scelta sia caduta stavolta sull’indipendenza produttiva, e in parte anche, come qualcuno teme, su una realpolitik figlia della già iniziata distensione trumpiana tra USA e Russia.

In questo, Anora è la scelta di un film perfetto: salda interessi, rivela talenti, parte dal luogo comune dal dejà vu di Pretty Woman per reinventarlo. Logico che a farne spese sia Emilia Pérez, incarnazione della multiculturalità dem. Così, ci chiediamo da alcuni giorni se davvero fosse quello scelto il film migliore dell’anno, in senso assoluto, o almeno uno di quelli destinati a entrare attraverso gli occhi direttamente nell’anima di chi lo guarda. Perché a scorrere la lista, tra i nominati, tra i premiati in altre categorie, e persino tra quelli neppure ammessi dall’Academy, tornano in mente tanti titoli che l’edizione 2025, durata oltre due ore e mezza, magniloquente e retorica come poche altre, avrebbe forse potuto, se non dovuto, riconoscere.

Ci riferiamo ad esempio, oltre che all’originalità, anche metafilmica di Emilia Pérez, che con tredici candidature sembrava destinato a una gloria più vasta di quella ottenuta, alle atmosfere generazionali che fanno di A complete unknown un possibile classico di domani, e a quel miracolo di potenza narrativa così difficile in fantascienza che è Dune: Parte Due.

The Substance aveva la diva Demi Moore, il plot, l’indipendenza e anche la violenza grafica, all’interno del mito faustiano. Non è bastato. Ne è servito innovare il genere del thriller religioso a Conclave. Inutili gli sforzi di analisi psicologica e i tanti piani narrativi di Nickel Boys, e persino le star, i colori e il sentiero rassicurante di ottimo merchandising di Wicked.

In ogni caso, per quanto relativa, la verità del cambiamento in atto è sotto gli occhi di tutti noi, e ridefinirà, ne siamo certi, il mercato audiovisivo e le tendenze di pubblico del futuro. Del resto, persino la nostra filmografia dimostra che commedie corali all’italiana e saghe Marvel o DC mostrano segni di logoramento, e bisognerà dare fondo a tanta fantasia produttiva, in sceneggiatura e in regia, per generare una visione più moderna della narrazione, a patto di non finire come The Brutalist, schiacciato - anche - dalla propria grandezza, e senza seguire il percorso accidentato troppo artificiale, e neanche troppo intelligente di Here.