Caduta Manbij trema Raqqa, la "capitale" siriana dell'autoproclamato Stato Islamico. «Mostreremo al mondo che il vento sta cambiando e libereremo le nostre terre da Daesh" ha urlato Abu Musab, un residente di Manbij. Domenica sera, dopo due mesi di battaglia e un centinaio di vittime su entrambi i fronti, le forze del Sdf (Syrian Democratic Forces, la coalizione curdo-araba sostenuta dagli Usa) hanno restituito Manbij ai suoi abitanti, costretti al dominio dell'Isis dal gennaio 2014. Mentre in città continuano le esplosioni delle mine e delle trappole lasciate dagli uomini del "Califfo" dentro case e ospedali, i vertici militari della coalizione anti-Isis stanno decidendo dove sferrare il prossimo colpo ad Abu Bakr al-Baghdadi. Sì, perché la macchia nera che si distendeva fra Siria e Iraq fra il 2013 e il 2014, si sta progressivamente riducendo. Dei 90mila chilometri quadrati controllati a giugno 2014 nella sua massima espansione, al Califfato ne sono rimasti all'incirca la metà. E le perdite non sono state indolori. Lasciata Manbij, l'Isis ha perso il collegamento fra la Turchia e Raqqa, distante solo 140 chilometri. Rimane sotto il suo controllo Jarablus, città sul confine da cui per anni sono transitati uomini e foreign fighters. Ma il cerchio si stringe. Tal Abyad, altra porta strategica fra Siria e Turchia, è stata liberata nel giugno 2015 e Kobane è già passata alla storia come la Stalingrado siriana per la sua resistenza contro i ripetuti attacchi dei jihadisti nell'autunno del 2014. Il poroso confine fra la Siria occidentale e la Turchia, più che distratta nel controllare chi e cosa passa sotto i suoi occhi, non gioca più a favore del "Califfo". Accerchiata Jarablus e assediata Aleppo (dove comunque l'Isis non è presente in forze), inizia a mancare l'ossigeno alla roccaforte Raqqa, che ospita il grosso delle milizie. Non solo, la riconquista di Palmira e le vittorie dell'esercito siriano e degli alleati libanesi Hezbollah a Ovest, sui monti del Qalamoun, hanno tagliato i collegamenti fra il centro del Paese e il confine con il Libano, altro buco nero che per anni è servito a rifornire il "Califfo" di uomini e mezzi. Effetto collaterale, e potenzialmente pericoloso, di tutto questo è l'avanzata delle forze curde, ormai vicinissime a riunificare il territorio dove sono etnia maggioritaria. Continuando di questo passo, i guerriglieri Ypg e Ypj (strettamente legati ai curdi turchi del Pkk) assicureranno la continuità territoriale dei tre cantoni siriani, Afrin, Kobane e Jazeela, di cui potrebbero rivendicare l'autogoverno una volta finita la guerra. Una striscia di terra di straordinaria importanza proprio sotto l'arci-nemico turco che già si è affrettato a minacciare, per bocca del ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu: «Liberata Manbij, i curdi se ne devono andare». Isolata la capitale siriana del Califfato, quella irachena, Mosul, è il prossimo obiettivo. Da mesi la campagna di riconquista della seconda città più grande d'Iraq è annunciata e poi smentita. L'obiettivo è troppo importante e la coalizione anti Isis non può permettersi errori. Così nel frattempo è stata fatta terra bruciata intorno. Nel marzo scorso le forze guidate dai peshmerga curdo-iracheni hanno riconquistato Makhmour, importante villaggio a Nord-Est di Mosul. Su questo versante la sconfitta più bruciante per gli uomini di al Baghdadi è stata la riconquista del monte Sinjar e di Sinjar city, nel novembre scorso. Oltre a scoperchiare ulteriori atrocità commesse contro gli yazidi che popolano la zona, la vittoria dei curdi a Sinjar ha tolto all'Isis il controllo dell'unica strada di collegamento fra Raqqa e Mosul, dividendo di fatto il loro territorio. L'accerchiamento di Mosul si sta completando anche sul versante Sud. Persa da molto tempo Tikrit, la città natale di Saddam Hussein, sotto il controllo dell'Isis erano rimaste Falluja e Ramadi, i due centri più importanti della provincia dell'Anbar. A fine dicembre dello scorso anno Ramadi è capitolata sotto i colpi dell'esercito iracheno e stessa sorte è toccata a Falluja solo due mesi e mezzo fa. Le truppe irachene hanno potuto così ricongiungersi con i peshmerga e i marines americani a Makhmour (altri 4.500 soldati di Baghdad stanno arrivando proprio in questi giorni) in vista dell'offensiva su Mosul. Prima di procedere all'assalto definitivo, anche in Iraq, così come in Siria, va risolta la domanda fondamentale: chi governerà il territorio quando il "Califfato" non ci sarà più? I curdi iracheni controllano già Kirkuk, la zona del Sinjar, Makhmour e altri villaggi da decenni contesi a Baghdad. Mosul, città a grande maggioranza araba sunnita, non interessa al governo autonomo di Erbil, ma la vicina piana di Nineveh, terra di cristiani e minoranze, sì. Inoltre, mentre l'esercito iracheno si è sciolto come neve al sole davanti all'avanzata dell'Isis, i curdi, sia in Siria che in Iraq, hanno pagato il tributo di sangue più alto. Obiettivi e storie diverse che continuano a rallentare l'azione sul campo: «Non credo che riprenderemo Mosul entro la fine dell'anno» ha ammesso il generale Najat Ali, comandante dei peshmerga a Makhmour. Ridotto in trincea in Siria e Iraq, quasi polverizzato a Sirte, in Libia, il Califfato sta attraversando il periodo più difficile da quando ha visto la luce. La sua eventuale sconfitta militare però non basterà a cancellare il pericolo che incarna, perché come in molti ripetono in Medio Oriente, "lo Stato Islamico non è un esercito, ma un'ideologia".