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Ammettiamolo, lAustria è dai tempi di Haider che ha recuperato parecchie posizioni nella classifica delle nazioni più antipatiche. Oddio, non è che pure in passato con gli Asburgo e con quellAnschluss accolto con entusiasmo fosse entrata nei nostri cuori, però queste ultime elezioni sanno ricordarci che certi venti neri cominciano sempre a spirare prima da quelle parti.Poi, per carità Vienna è bellissima e la musica a Salisburgo è unica, le palle di Mozart fanno gola a tutti, per una fettina di Wiener Schnitzel venderei un arto e la Torta Sacher piace pure a Nanni Moretti.E soprattutto il pregiudizio è un vizio che dobbiamo toglierci tutti. Ce lo dimostra il regista Matthias Kossmehl, tedesco, che si è scelto Berchtesgaden, dove Adolf Hitler faceva villeggiatura, per raccontare una storia che non immagineremmo. Una vicenda che nasce nel 2012 ma che trova la sua visibilità al Trento Film Festival (iniziativa multidisciplina che guarda anche alla letteratura), rassegna di racconti filmici di montagna, dove questultima è luogo dellanima prima che geografico, diretta da Luana Bisesti e con Sergio Fant alla programmazione cinematografica. Una di quelle iniziative speciali che sono periferiche solo in politiche culturale nazionali miopi come la nostra.Parliamo di Café Waldluft, un documentario che in 80 minuti ci porta in una di quelle strutture turistiche tipiche delle montagne austriache: ristorante, hotel, baita, rifugio. Non puoi chiamarlo albergo, non è solo un luogo dincontro. Posti speciali, tagliati fuori dal mondo e circondati dal verde e con panorami da urlo, in cui il cineasta indulge senza perdersi, per ricordarci che il respiro delluomo dovrebbe essere altro dalla meschinità quotidiana, e in cui lumanità è curiosa e rarefatta, in cui ci si può isolare o integrarsi. Un rifugio, appunto, nel senso più ampio e alto del termine.Kossmehl incontra questo posto quando, già sensibile al tema dopo il corto Welcome to Bavaria, si decide a cercare una di quelle strutture ricettive che quattro anni fa accolsero lappello del governo di Vienna sullospitare profughi e migranti. Non sono in tanti a dire sì, ma neanche così pochi. Ma quando Matthias scopre ai piedi, anzi in mezzo alle montagne Watzmann, laddove il Führer cercava riposo, Mama Flora e la sua grande famiglia allargata che va dai vecchi clienti austriaci al 100% - gente a cui dà persino fastidio chi vuole vedere in tv il Bayern Monaco, per dire a ragazzi della Sierra Leone che scappano dallEbola, della Siria, che fuggono dalla guerra, dellAfghanistan da cui lOccidente si è defilato per lasciare tutto nel caos e nella violenza, si ferma. Capisce che lì troverà il suo film. E non solo.Café Waldluft (anzi Gasthof Waldluft, che in austriaco vuol dire più o meno pensione), se lo cerchi su Tripadvisor ha una media di quattro palle. Meritate, a giudicare dalla cura con cui cucinano e anche dalla soddisfazione con cui si mangia e si beve. Ecco, siamo sinceri, quando lo cercheremo sui dizionari del cinema, meriterà, anche sotto il profilo artistico, per lo meno la stessa valutazione. Perché Kossmehl non vuole unopera a tesi, né fare muro contro le barriere, materiali e politiche, che da Vienna vogliono mettere sul Brennero. La dimostrazione di questintento sta nel fatto che non va a cercarsi i paesani di Mama Flora che contestano la sua scelta, ma come controparte usa gli avventori di sempre, più disorientati che razzisti.Da bravo regista, non invade il campo. E non chiama il controcampo. No, ascolta e osserva, cerca nelle pieghe della realtà una favola umana così normale da sembrare inevitabile.Convivere si può? Convivere è sempre la scelta naturale, ci dice questo lungometraggio. Proprio in un luogo in cui lodio ha vissuto (con Hitler) e secondo le leggende si è fatto addirittura montagna (Watzmann fu un re, dicono i miti autoctoni, così crudele e feroce che sudditi, dei e persino suoi familiari si unirono per lapidarlo e lui, morendo, megalomane comera, si fece catena montuosa). E una delle tante storie che apprendiamo da un lavoro dolce e rigoroso, che si incentra su questa esile matriarca semplice eppure raffinata, donna emigrante essa stessa 50 anni prima che decide di offrire un po di pace ad anime inquiete. Non ha ambizioni da mecenate, la proprietaria, né idealismi. No, è un essere umano che tende una mano, naturalmente, ad altri esseri umani. Che si disinteressa di ciò che dicono quei vecchietti brontoloni dei suoi clienti storici: uomini e donne che assomigliano più a personaggi dei Muppets, affezionati alle loro fisime, che alla maggioranza silenziosa e razzista che ora trasformatasi in un elettorato sfacciato.Flora sa che torneranno sempre, sa di averli convinti che la sua non è solo la scelta giusta, ma lunica possibile, e che lei è abbastanza solida e tollerante, da non pretendere che loro glielo dicano apertamente. Per questo al Café Waldluft molti tornano ma molti, soprattutto, rimangono. Perché quel sorriso tranquillo, quelleloquio calmo, ironico, dolce e sicuro, quello sguardo consapevole, tiene tutti insieme. Le ruvidezze degli anziani del posto, le malinconie di giovani esiliati che non sanno cosa fare della loro vita. E come. E dove.Kossmehl ne fa il centro di gravità permanente, di fronte a quella donna, si ferma. Trova il segreto di quella pensione, che è il vivere insieme. Che è risolvere le diversità spiegandosi. Nella frase lanatra non è il maiale e nella spiegazione a gesti di Flora, cè tutto. Si può stare insieme, diversi e uniti: semplicemente, inevitabilmente. E, come rivendica lei in uno dei pochi momenti in cui alza leggermente, impercettibilmente il suo tono rassicurante loro vengono qui da ben prima della recente ondata degli arrivi dei migranti. Da Mama Flora tutti sono stranieri e tutti sono di famiglia. Il segreto è questo. Anzi, abbiamo sbagliato, prima, nel definirla tollerante. Non tollera, accoglie, vive insieme. E forse per questo lì ci si apre, alla vita e al talento, si trova il tempo, in unesistenza infernale, come il siriano Abdul, di regalare a sé e al Café una poesia al giorno. Si ride, si gioca, ci si cerca. Ci si riapre alla vita.Migrare è cercare una patria, un Heimat direbbe Reitz. Perché la propria non lo è più. Una terra che ti sia madre, padre, sorella. E puoi trovarla anche in un posto isolato e lontano. Dove tutti, proprio tutti, sono diversi da te. Anzi, forse quello è lunico mondo possibile.