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Nessuno crede davvero al rischio di crisi di governo sull'Ucraina e tuttavia il nervosismo è palpabile, palese. Sono umori solo apparentemente contraddittori. Le ragioni per non credere nella crisi sono concrete e tutte politiche: ai piani alti del Nazareno le enumerano da giorni. Perché si arrivi a una crisi, argomentano, deve esserci una volontà politica, come quella che animava Renzi nei confronti del secondo governo Conte. Ma oggi chi può nutrire un simile progetto? Non Conte, perché il prezzo sarebbe la rottura dell'alleanza con il Pd e questo l' "avvocato del popolo" non può permetterselo. Deve patrocinare prima di tutti il suo partito e senza l'alleanza col Pd i seggi scarseggeranno e il ruolo politico si ridurrà a quello di una rumorosa forza d'opposizione priva di potere. Dal quale i 5S sono rapidamente diventati dipendenti. Neppure Salvini, perché dopo aver scommesso tutto su questo governo non può permettersi di farlo cadere, sarebbe una sorta di Papeete 2.
Tutte queste considerazioni, secondo gli strateghi del Pd ma anche di palazzo Chigi, saranno confermate e rafforzate dalle elezioni di domenica prossima. I 5S verificheranno di non esistere se non dove si presentano alleati con il Pd e gli servirà da lezione. La Lega vedrà punito il tentativo, sempre azzardato, di dar vita a un partito di lotta e di governo e anche in questo caso Salvini dovrà abbassare le penne, del resto mai davvero arruffate. Tutto senza contare che sia per l'avvocato che per il capitano il prezzo di un colpo di testa sarebbe la scissione dei rispettivi partiti, certissima tra i 5S perché figurarsi se Di Maio obbedirebbe a un eventuale ordine di dimettersi, meno sicura ma per nulla esclusa neppure nella Lega. Giorgetti, a differenza di Di Maio, conosce e riconosce il valore della disciplina di partito, ma forse non al punto di accettare una crisi che segnerebbe nel Carroccio il trionfo di una linea opposta alla sua.
Si aggiunga infine che l'intera vicenda a molto di posticcio, somiglia sin troppo a una sceneggiata. Il governo, infatti, non ha bisogno del voto del Parlamento per inviare nuove armi. Draghi ha già in tasca una delega, votata da tutti, che gli permette di fare ciò che vuole, in materia di invio di armi, sino al 31 dicembre. Non significa che l'argomento possa essere ignorato nel dibattito che seguirà le comunicazioni del premier il 21 giugno. Ma certo l'assenza di un voto preciso e vincolante disinnesca molte mine. Alla fine sarà solo questione di trovare i giusti mezzi toni nella risoluzione di maggioranza, necessaria per fingere che la maggioranza stessa sia all'atto pratico esistente e unita.
Insomma dovrebbe trattarsi di un bizantinismo di quelli che sono la specialità della politica italiana. Un testo che non citerà le armi, per consentire a Conte e Salvini di fingersi soddisfatti, ma che arriverà per altro percorso alla stessa meta. Per esempio citando la conferma del sostegno all'ucraina nelle forme già approvate dal Parlamento, cioè appunto fornendo armi. Già, ma se tutte queste sono vere e fondate, come si spiega l'indiscutibile e diffuso nervosismo? Probabilmente con il fatto che, per quanto la logica politica garantisca un esito, tutti sanno perfettamente che qualche volta i fatti si rifiutano di adeguarsi alla logica e gli incidenti possono capitare anche quando nessuno li vuole davvero. Conte, per esempio, ha investito moltissimo sul no alle armi, quasi il solo argomento che gli permetta di provare a restituire un'identità a un Movimento che, senza quell'identità, è condannato a ridursi a puro strumento di potere, e di conseguenza a sparire nei prossimi cinque anni. Letta d'altra parte deve tenere botta di fronte a un'opposizione interna che non vede l'ora di trovare un appiglio per denunciare l'alleanza con gli ' inaffidabili' 5S. Dunque sì, si tratta solo di parole, ma non è affatto detto che su quelle parole i contendenti non finiscano per irrigidirsi oltre ogni attesa.
La stessa fiducia nelle elezioni come "castigamatti" è probabilmente ben riposta ma con un margine di rischio. L'arma può rivelarsi infatti a doppio taglio. Una batosta per la Lega, in concreto un risultato inferiore al 15%, scatenerebbe entrambe la fazioni: i governisti metterebbero sotto processo il Salvini "di lotta", ma i salviniani doc se la prenderebbero invece proprio con i governisti e con il loro totale allineamento alla volontà di Draghi. Il margine di rischio insomma è davvero esiguo. Ma di certezze non ce ne saranno sino alla sera del 20 giugno.