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Un sondaggio della Monmouth University ha raccontato un paio di giorni fa che per il 18% degli americani la cantantecountry pop Taylor Swift sarebbe parte di un complotto per impedire il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Per quanto si tratti di una piccola università del New Jersey che ha interrogato 902 americani ai primi di febbraio, e nonostante di quel 18% quasi il 90% si sia contestualmente dichiarato elettore di Trump, si è immediatamente mossa la macchina di propaganda elettorale social dei trumpisti. Che di Taylor Swift sono ormai una vecchia conoscenza.
Gli attacchi sono partiti subito perché l’endorsement è molto temuto dagli avversari di Biden, e non avverrà se non a distanza ravvicinata al voto: dunque ci si prepara per tempo. Per un doppio ordine di motivi: Taylor Swift può spostare milioni di voti, e soprattutto portare alle urne in massa la generazione Z della quale è idolo assoluto e con la quale ha un rapporto simbiotico. E perché dal momento in cui Taylor Swift avrà espresso la sua preferenza l’effetto per Joe Biden sarà di perfetto e completo ringiovanimento. Di Trump, simmetricamente, apparirà la vera età. Che, al netto della tintura dei capelli, è la stessa di Biden.
Per capire come mai politologi ed analisti considerino una cantante country pop un punto di svolta per le presidenziali americane bisogna dimenticarsi di Sanremo. Non si tratta di messaggi politici lanciati da un palco tra una canzonetta e l’altra. Taylor Swift è un unicorno, in senso tecnico: si chiamano unicorni le start up – aziende sorte dal nulla, e cioè da un’idea- che fatturano 1 miliardo di dollari. Il fatturato di Swift del 2023 è stato, con il suo ultimo tour, 1,1 miliardi di dollari. E poi bisogna anche dimenticarsi degli influencer: a 34 anni, la cantante più ascoltata al mondo calca le scene da 22. Ha lavorato sodo sin dal primo giro a Nashville, a sole 11 primavere, vincendo tutto il vincibile e scalando tutte le classifiche « più rapidamente dei Beatles », come ha scritto qualcuno. Diecento milioni di dischi venditi, 10 album, 144 canzoni. É molto brava, molto bella, crescendo è diventata pure sexy, ma nemmeno questo basterebbe. Il fatto è che tutta la storia di Swift richiama l’archetipo del sogno americano, aggiornato all’empowerment, e all’empowerment femminile. Figlia di due manager della profonda provincia dell’impero americano che le diedero per nome il cognome di un’idolo country dei boomer -James Taylor, appunto- ha cominciato a scrivere testi e musica a 11 anni (Mozart, per dire, debuttò nella composizione a 5).
Le sue canzoni sono tutte autobiografiche: parla di se stessa, e usa la musica anche per rispondere agli attacchi di cui la sua vita di successi è stata oggetto, provengano essi dai trumpisti o da Kayne West (il signor Kardashian che all’epoca era una star assoluta, mentre lei aveva solo 17 anni). E sempre con una canzone comunicò il profondo disagio vissuto nella causa, pur vinta, contro un molestatore: attaccando i meccanismi di «un processo disumanizzante» che colpevolizza le vittime. «Io avevo 7 testimoni del fatto e una foto, non oso immaginare i processi per stupro, dove è la tua parola contro la mia». L’altro punto, quello dirimente per l’american dream, non è che semplicemente Swift ha sfondato: lo ha fatto sempre col più solare dei sorrisi sulle labbra. «Abbiamo deciso di premiare la gioia, qualcuno che porti la luce nel mondo» hanno detto quelli di Time nel dedicarle la copertina di « donna dell’anno». Al Nyt hanno ironizzato, «Taylor Swift è l’industria musicale, ma è anche è la persona più socievole dai tempi di Bill Clinton». Sfidanzata per troppo lavoro sin oltre i vent’anni, ha poi cominciato a cambiare celebrities come i pedalini, sino all’incontro con la star dell’ultimo superbolws del football: Travis Kelce. Ma mentre lui vinceva la supercoppa, chi aveva portato allo stadio un surplus di 100 milioni di dollari in pubblicità era lei, appena sbarcata dall’Australia e in partenza per Tokyo. Ha fatto notizia (di una pagina) perfino sui giornali italiani l’indotto che Swift muove, facendo impennare i prezzi con la sua sola presenza nelle città toccate dai suoi tour. »Miss americana », come dal titolo del suo primo biopic su Netflix (il prossimo a breve su Disney+) nei primi 12 anni di carriera non ha preso mai alcuna posizione politica. Poi ha visto che per le elezioni di midterm del 2018 nel suo stato si candidava « una Trump con la parrucca » e ha buttato nel cestino il diktat della casa discografica. «Non fare come le Dixie Chicks», le dicevano. Non fare come le cantanti di maggior successo ai tempi della guerra in Iraq che sono scomparse per aver detto un’unica frase contro George W. Bush. Già, ma a quei tempi non c’era internet, non c’erano i social, e soprattutto le Dixie Chicks non avevano 400milioni -milioni- di followers. Così Swift appoggiò il democratico che in Tennesse si opponeva a Marsha Blakburn. E perse. Ma la ragazzina country pop non si arrese (ancora il sogno americano). Lottò, spiegando alla casa discografica « non me ne frega niente se scriveranno che sono contro Trump, mi spiace solo di non averlo fatto prima ». Ed è ripartita non dalle candidature, ma dai temi politici, sostenendo l’Equality Act, e raccogliendo cosi in ventiquattr’ore mezzo milione di firme. Se, come peraltro aveva già fatto nel 2020, scriverà di nuovo una riga di tweet pro Biden, questo farà la differenza. Anzitutto riuscendo a fare quel che è determinante in tutte le tornate elettorali di quest’anno in cui in cui di vota in 75 paesi del mondo: portare alle urne il tuo elettorato. E ci riuscirà perché, piaccia o meno, Swift non ha dei fan. Ha quello che sembra mancare ai leader nell’attuale autunno della democrazia: una vera e propria costituency.