Una delle conseguenze della Brexit, evocate dai suoi detrattori nell’Unione europea, è che l’uscita del Regno Unito avrà un peso per tutti i Paesi membri che dovranno sopperire alla mancanza di un Paese nel bilancio comunitario. L’entrata in vigore, il 10 gennaio, del “Brexit Bill” ha accelerato i tempi: «È tempo di completare la Brexit. Questo disegno di legge lo fa», ha dichiarato il ministro della Brexit Stephen Barclay ai deputati, riassumendo ore di dibattito parlamentare.

Ma le conseguenze per l’Inghilterra sono altre, e cioè un maggior peso geopolitico nello scacchiere africano per sopperire all’uscita dall’Unione europea avvenuta lo scorso 31 gennaio.

È quanto si desume dal summit Regno Unito- Africa del 19 gennaio 2020, dove Boris Johnson, ha illustrato la posizione del suo paese in merito, organizzato al fine di rafforzare i legami commerciali tra le due parti e incrementare gli investimenti nel continente, un summit che ha visto riuniti ben 21 stati africani come Nigeria, Congo, Kenya, Egitto, Ghana, Senegal, Malawi, Mozambico, Costa d’Avorio, Uganda e Ruanda, insieme a rappresentanze politiche britanniche, imprenditori africani e rappresentanti della finanza.

L’intento delle élite africane è migliorare le proprie infrastrutture e avere una politica sui passaporti più tollerante. «Il primo ministro Boris Johnson userà il Summit Regno Unito- Africa sugli investimenti per tentare di fare in modo che la Gran Bretagna diventi un partner privilegiato per gli investimenti in Africa», ha riferito una dichiarazione del governo di Londra. Fino alla fine del 2020 il Regno Unito, però, rimarrà membro dell’Unione doganale e del mercato unico dell’Ue, ma, a partire dai due anni successivi il primo ministro conservatore Johnson ha escluso ogni proroga. Invece, di contro, i rapporti con l’Africa rimarranno invariati per tutto l’anno.

L’Africa è vista quindi come una possibilità d’investimento da parte di molti stati: le principali potenze economiche in auge, dalla Cina agli Stati Uniti passando per la Francia, investono ingenti capitali nel continente africano. Anche nazioni come l’India o gli stati del Golfo Persico hanno incrementato da anni la loro presenza in quei paesi. Per il Regno Unito, quindi, l’Africa diventa perciò di vitale importanza per sopperire alle possibili problematiche economiche derivanti dall’uscita dell’Unione europea.

La Gran Bretagna ha quindi deciso di dotarsi di un apparato economico e finanziario adeguato e indipendente dai commerci con l’Unione europea, a fronte degli investimenti africani fatti da altri stati industrializzati o europei, molto più elevati dei suoi nel solo anno 2018.

Si punta ovviamente alle classi medie africane, oggi in ascesa, e che stanno incrementando i consumi. L’incremento di Pil ne è il metro di misura lampante: si passa dallo 0,8% del 1990- 1994 al 3,5% del 1995- 1999 fino al 5,4% dal 2000- 2013, dati accompagnati da un incremento dei ceti medi in Africa, da 137milioni nel 1990 a 326milioni nel 2010! In Africa vi sono 8 delle 15 economie in più rapida crescita al mondo, ed entro il 2050 ospiterà 1/ 4 dei potenziali consumatori di prodotti di ogni genere del pianeta. L’Inghilterra quindi intende incrementare gli investimenti, tenendo presente che l’ 80% degli investimenti in Africa si concentra sui servizi minerari e finanziari e il 30% è destinato a un singolo paese, il Sudafrica e paesi limitrofi: infatti sono già stati avviati accordi di partenariato con la SACU, la Southern African Customs Union, che è composta giustappunto da Sudafrica, Botswana, Namibia, Lesotho, Swatini e Mozambico.

C’è da dire che questa operazione si accompagna all’impegno britannico a far passare l’Africa dal consumo di combustibili fossili a energie rinnovabili: «Un decennio fa eravamo una delle nazioni più ricche di carbonio in Europa. Oggi siamo leader mondiali nell’offshore. Generiamo regolarmente più energia elettrica da fonti rinnovabili che da combustibili fossili. E ci siamo quasi completamente liberati del carbone» ha affermato Johnson durante il summit, specificato che la Gran Bretagna sta abbandonando gradualmente la promozione dell’estrazione del carbone termico e la diffusione di centrali elettriche a carbone all’estero, aggiungendo che tuttavia «non ha senso ridurre nel Regno Unito la quantità di carbone che bruciamo se poi ci spostiamo verso l’Africa e incoraggiamo gli Stati africani a usarne di più». La politica britannica di investimenti in Africa, però, si scontra con quella di altre potenze, che da tempo stanno investendo a riguardo, prime fra tutti l’alleato americano e i cinesi, che di fatto hanno surclassato gli inglesi nel campo africano.

Altro caso è quello della Francia, che continua ad avere una presenza militare ed economica nei vecchi possedimenti coloniali – di fatto un prolungamento del colonialismo, teoricamente concluso –, grazie ad una politica di forzata assimilazione dei mercati africani da parte di Parigi che portò il paese europo a coniare il Cfa, la Communauté financière africaine, vera e propria moneta neocoloniale, che ne condiziona l’economia. Nelle ex colonie africane, invece, c’era invece la tendenza a delegare l’amministrazione ai poteri già preesistenti di tipo etnico tribale, uno dei motivi della perdita di ogni supremazia a livello commerciale in Africa.

L’esistenza del Commonwealth, inoltre, a cui appartengono tutte le ex colonie della Corona, non è stata commercialmente influenzate dall’adesione del Regno Unito all’Unione europea, anche per la presenza di leggi protezioniste, non hanno favorito gli investimenti inglesi in Africa, facendo rimanere il Regno Unito indietro rispetto alle altre potenze globali.