Dice che con la Brexit ha raggiunto il suo obiettivo, che si sente un uomo appagato e che è giunto il momento di ritirarsi a vita privata: basta stress, basta conflitti, basta nemici perché vuole «sotterrare l’ascia di guerra con chiunque». Così Nigel Farage, il profeta del “leave” e grande vincitore del referendum dello scorso 23 giugno abbandona le redini dell’Ukip, il partito che ha fondato nel 1993, rinunciando a guidare i populisti britannici. Come ha fatto la scorsa settimana il conservatore Boris Johnson (altro profeta del “leave”) abbandonando la candidatura alla successione del premier Cameron, anche Farage esce di scena. Una mossa inattesa, quasi un coup de théâtre che però si presta a interpretazioni differenti, alcune di esse non prive di malizia. Di sicuro l’impressione generale è che gli apprendisti stregoni dell’uscita dall’Ue non sembrano affatto in grado di governare le conseguenze delle loro scelte politiche e la crisi che hanno generato, particolarmente talentuosi nel distruggere, del tutto incapaci nel costruire un’alternativa. «Mi sono gettato in questa mischia perchè volevo che fossimo una nazione sovrana, non per diventare un politico di carriera. Sento di aver fatto la mia parte, non potrei ottenere di più. Il mio scopo nella politica era portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea, durante la campagna del referendum ho detto che volevo indietro il mio Paese, oggi vi dico che rivoglio indietro la mia vita», ha spiegato Farage nella conferenza stampa in cui annuncia le sue dimissioni. Perché il trionfatore del referendum, l’uomo che con la sua campagna nazionalista ha messo alla corda tories e laburisti e gettato nel panico un intero continente decide improvvisamente di lasciare tutto? Le malelingue parlano di guai finanziari, altri evocano seri problemi di alcolismo, altri ancora sottolinenano la «vigliaccheria» di chi abbandona la nave dopo aver provocato il naufragio. In pochi credono alla favola del politico sfribrato dalle battaglie che ha voglia di ritrovare il calore della famiglia e le quiete passeggiate nella brughiera. Anche perché Farage ha fatto sapere che non rinuncerà alla poltrona di parlamentare europeo «per seguire come un falco i negoziati di uscita dall’Unione della Gran Bretagna». E per ricevere il lauto stipendio dall’odiata Bruxelles.Ora in ogni caso da ieri si è aperta la guerra di successione alla testa del partito; il favorito è Douglas Carswell, unico deputato britannico dell’Ukip che con Farage ha sempre avuto un rapporto conflittuale tanto per usare un eufemismo. Intervenuto sul suo account twitter, Carswell riconosce che l’ormai ex leader «ha giocato un ruolo importante nella vittoria del referndum», spiegando però che le sue dimissioni «rappresentano una grandissima opportunità per l’Ukip». Chi esulta per l’uscita di scena di Farage (e nel frustratissimo campo del “remain” ce ne sono molti), personaggio dai tratti pittoreschi divenuto quasi un ostaggio della Storia, forse si lascia trascinare dall’emozione. Come scrive Owen Jones, notista politico del Guardian, un segretario più presentabile e meno cialtrone potrebbe mettere in seria difficoltà la già esangue classe politica britannica: ««Non fate festa per la dimissioni di Farage. L’Ukip potrebbe diventare una minaccia molto più grande per i seggi del Labour al nord. Se l’Ukip lo sostituirà con qualcuno meno polarizzante e con un appeal maggiore, sia i laburisti che i conservatori avranno bei grattacapi».