Senza alcun dubbio Gari Kasparov è stato un “terrorista”, non nella vita, ma sulla scacchiera. E il terrore è stato il sentimento che, in purezza, tagliava in due i suoi avversari, sopraffatti dalla violenza dei suoi attacchi, dall’imprevedibilità dei sacrifici, da una fame di vittorie che rasenta il bullismo, da un carisma monumentale. Una macchina da guerra cannibale e volitiva che ha dominato la scena per vent’anni lasciando le briciole agli altri.

Fuori dall’universo astratto del nobile gioco l’ex campione del mondo si è però sempre battuto per lo sviluppo della democrazia nella sua Russia da una prospettiva liberale, una battaglia impari che più di una volta lo portato sulla linea di tiro di Vladimir Putin: in vent’anni di militanza Gari è finito agli arresti per ben tre volte, sempre nel corso di manifestazioni di piazza e di contestazioni al blocco di potere putiniano. Nel 2007 rimase in cella cinque giorni, riottenendo la libertà grazie all’intercessione del suo vecchio “nemico”, lo scacchista Anatoli Karpov, fuoriclasse delle 64 case e uomo politicamente contiguo al Cremlino fin dall’epoca di Leonid Breznev. L’ultimo arresto nel 2012, davanti al tribunale di Mosca mentre parlava con dei giornalisti criticando il processo al gruppo punk delle Pussy Riot.

Dopo quell’esperienza si è trasferito stabilmente a New York e ha ottenuto la cittadinanza croata: da uomo intelligente e accorto ha capito che in Russia il suo attivismo lo avrebbe portato fatalmente in una di quelle colonie penali riservate agli oppositori del regime.

Ma Kasparov non ha mai chiuso la bocca e ha continuato a sparare a zero su Putin e il suo cerchio magico, denunciando la repressione feroce del dissenso politico e poi l’invasione «criminale» dell’Ucraina. Nei giorni successivi all’invasione, pronunciò parole durissime, sostenendo che l’armata russa deve essere «sconfitta sul campo» da Kiev e dagli alleati occidentali. Riflessioni amare anche sullo stato della società russa che secondo Kasparov priva di coraggio e incapace di ribellarsi allo “zar” per convenienza o quieto vivere.

Con un simile curriculum era dunque inevitabile che, prima o poi, Gari Kasparov finisse in modo ufficiale nella “lista nera” del Cremlino; nel 2022 lo hanno catalogato come “agente straniero”, definizione applicata a chiunque osi contestare l’avventura militare in terra ucraina, agli attivisti dei diritti umani, ai movimenti per la pace.

L’ultima uscita dopo la morte in circostanze quanto meno misteriose del dissidente Alexei Navalny in un carcere siberiano: «L’assassino di Alexei si chiama Vladimir Putin!». In quel caso non ha risparmiato bordate anche all’Occidente e ai suoi leader ancora troppo morbidi e accondiscendenti nei confronti di Putin: «Temo preferiscano che i dissidenti siano martiri. Possono lasciare fiori e dire belle parole mentre negoziano con l'assassino. Nessuno contesta tale ipocrisia. Navalny è stato prima di tutto e sempre un combattente e, a meno non combattano, Biden, il tedesco Olaf Scholz e gli altri dovrebbero tenere il suo nome lontano dalle loro lingue biforcute» . Così il nome di Kasparov alla fine è stato aggiunto dall’autorità di vigilanza finanziaria russa Rosfinmonitoring all’elenco dei nemici giurati del Cremlino, quello dei «terroristi estremisti» per intenderci. Se venisse catturato rischierebbe una pena minima di cinque anni di prigione, non per aver commesso atti materiali contro gli interessi della Russia, ma per aver espresso le sue opinioni politiche.

Fedele al suo stile fiammeggiante e provocatorio, Kasparov ha replicato in questo modo alla notizia sul social X: «È un onore che il mio nome sia su quella lista, un fatto che racconta più del regime fascista di Putin di quanto dica di me. Come spiegava Goldwater, l’estre-mismo nella difesa della libertà non è un vizio e la moderazione nel perseguimento della giustizia non è una virtù. Tutta l’opposizione, o solo la semplice decenza, viene chiamata estremismo dalle dittature».