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Michela Murgia è morta a 51 anni
Il 10 agosto, la notte delle stelle di san Lorenzo, è morta a Roma per un carcinoma ai reni la scrittrice e attivista Michela Murgia, 51 anni, nata a Cabras, Sardegna. Aveva rivelato la sua malattia in un’intervista a Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera a maggio. In questi mesi, non ha smesso di raccontarsi, non ha smesso l’impegno delle sue opinioni, non ha smesso di continuare a vivere – sposandosi, mettendo su casa, raccogliendo intorno a sé la sua famiglia queer. La prima volta che aveva parlato pubblicamente del cancro, al quarto stadio, sapeva di avere una scadenza ravvicinata con la morte – si poteva differire di qualche ora, di qualche giorno, di qualche settimana. Murgia aveva deciso di non rendere oscena la propria morte, di non nasconderla fuori dalla scena, ma di esporla, di farne scandalo – una pietra di inciampo, un turbamento per le nostre coscienze. Perché noi, della morte non vogliamo parlare, non vogliamo saperla.
Ci stiamo lasciando alle spalle, insciallah, una terribile epidemia che ha mietuto milioni di morti nel mondo e decine di migliaia nel nostro paese. La nostra cultura più recente, la nostra vita quotidiana e produttiva, sociale e affettiva ha rimosso la morte come fatto pubblico, collettivo: non viviamo, vivaddio, le guerre, le carestie, le pestilenze. Il Covid sembrava costringerci a riconsiderare la morte nella propria quotidianità, e non più solo come fatto privato, ma come evento collettivo che investiva i nostri quartieri e le nostre città. Le immagini delle bare portate via dai camion militari mentre il contagio infuriava a Bergamo e non c’era più spazio per seppellirli, e si avviavano verso la cremazione, senza che i parenti avessero potuto salutarli, prendere commiato – ci straziarono il cuore. Avemmo paura – il contagio era fuori controllo, la morte faceva la sua messe a piene mani – ma anche tanta pietas, tanta compassione. Poi, i morti del contagio, le immagini dei morti del contagio sono scomparse. I morti sono diventati una cifra, un numero che veniva snocciolato quotidianamente, accanto quelli dei contagiati, dei guariti, di quelli in terapia intensiva, e poi dei vaccinati. Un dato, oggi sono un tot più o meno di ieri, come l’indice di trasmissibilità che oggi ha una percentuale un po’ più o un po’ meno di ieri.
In realtà non siamo “ritornati” alla morte, alla consapevolezza e al pensiero della morte, alla morte come fatto della vita collettiva, di una comunità. Forse nei paesini della Val Seriana, dove la pandemia ha colpito con estrema durezza, avranno messo una lapide con il lungo elenco dei caduti, magari nella piazzetta, accanto al monumento dei caduti della Prima guerra mondiale. Ma è difficile pensare che possa cambiare qualcosa “dopo” se non è cambiato niente “mentre”. E la realtà è che la morte non è tornata “familiare” con il contagio. Perché la maggior parte delle vittime (e del contagio) all’inizio era “concentrata” geograficamente, dove è stata sì, soverchiante, e quindi abbiamo sentito compassione ma erano sempre “altri” che morivano, per la maggior parte degli italiani; e infine, perché quando il contagio si è esteso comunque la morte era “confinata”, soprattutto in Rsa e case di riposo, posti, cioè, già nascosti alla visibilità collettiva e, io direi, anche al sentimento collettivo. Sono “depositi”, confinamenti di esseri umani. Luoghi dove noi stessi, figli, familiari, abbiamo nascosto i nostri vecchi, anche perché non possiamo più curarli e badarli, perché le nostre vite, tutto il tempo delle nostre vite si è assoggettato al lavoro, alla performance produttiva, nella testa, nelle fibre dei sentimenti e non ne avanzano; e perché l’antropologia delle nostre famiglie è cambiata: famiglie piccole, piccolissime, denatalizzate, divorziati, single, già i bambini sono una fatica e un intralcio, figurarsi i vecchi.
L’aspetto più inquietante è che fin dall’inizio la morte degli anziani è stata usata come il dato “rassicurante”, la notizia che poteva “confortare”. Falcidiata metà della Rsa di Vattelapesca: occhei, sono anziani, non ci tocca. L’Istituto superiore di sanità forniva informazioni dettagliate sull’età – sopra gli ottantacinque anni, con almeno due patologie pregresse, eccetera, ma non per il dolore che questo rappresentava bensì per il “sollievo” che questo significava: dai settanta in giù il contagio può colpire ma non si muore.
Così, invece di proteggere di più gli anziani, sono diventati come una sorta di prima linea della morte, i nostri “arditi” mandati in missione suicida, il resto del paese poteva stare in trincea, certo scomodamente ma vivo. Gli anziani sono stati il nostro “tributo”, il nostro sacrifico collettivo al contagio.
La morte rimane perciò una questione individuale, personale: una “pratica” da chiudere in fretta. Mi colpì molto, in quei mesi tremendi, ritrovare al suo posto di lavoro una persona che aveva perduto la mamma, anziana, un paio di giorni prima, senza neanche godere del tempo di lutto previsto per legge. Cosa farei a casa? mi ha detto. Abbiamo “velocizzato” l’elaborazione del lutto, del dolore perché lo pensiamo come un tempo morto, non-valoriale, e pure un tempo che non ha valore d’uso in questa società, o non sappiamo più come usare, o ci spaventa usarlo in solitudine.
Michela Murgia, esponendo se stessa, se stessa con la malattia, ha fatto esattamente il contrario. C’è chi l’ha coperta di insulti, di maledizioni – che morisse presto, che si togliesse dai piedi: era scomoda, Michela, e bisognava chiudere in fretta questa “pratica”.
Murgia invece ha reso politica la sua morte – politica nel senso più nobile e più alto: quello della comunità di cittadini. Esponendo la sua morte, ci ha restituito la sua vita, perché ogni vita è frammento di collettività e di comunità. Non c’era valore di scambio – la sua vita ci è stata resa gratuitamente. Lei ha agito politicamente la propria morte. Per noi.
Sono grato a Michela – con cui ho lavorato tanti e tanti anni fa, scrivendo insieme, scambiando passioni e pensieri – per tutto questo.