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In this picture made available by Iranian state TV IRIB, presidential candidates for June 28 election from left to right; Amirhossein Ghazizadeh Hashemi, Mohammad Bagher Qalibaf, Masoud Pezeshkian, Saeed Jalili, Alireza Zakani, and Mostafa Pourmohammadi listen to the country's national anthem at the start of their debate at a state-run TV studio in Tehran, Iran, Monday, June 17, 2024. (Morteza Fakhri Nezhad/IRIB via AP)
Oltre sessanta milioni di iraniani sono chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente della repubblica sciita dopo la tragica morte di Ebrahim Raisi, precipitato con il suo elicottero lo scorso 19 maggio.
Un passaggio cruciale per il regime degli ayatollah, reduce da una lunga stagione di proteste di piazza che ne hanno scosso le fondamenta, alimentando allo stesso tempo la feroce repressione delle forze di polizia e del sistema giudiziario nei confronti degli oppositori, in gran parte giovani e donne delle grandi città. Schedare, punire e talvolta giustiziare i dissidenti non è più sufficiente però: c’è bisogno in tal senso di ritrovare legittimità politica, tanto che la guida suprema Alì Khamenei ha invitato tutti gli elettori a partecipare al voto e a scongiurare l’astensione monstre delle legislative di marzo quando ha votato appena il 42% degli aventi diritto, il dato più basso dalla Rivoluzione del 1979. «Noi non siamo come gli americani che si impongono con la potenza militare, la forza del nostro sistema si fonda sulla partecipazione popolare al voto» ha detto Khamenei in quello che sembra più un moto di speranza che un analisi fattuale della realtà.
Forse è per il timore di un’affluenza ancora più bassa che stavolta il Consiglio dei guardiani della Rivoluzione, l’organismo incaricato di autenticare le liste elettorali, ha accettato la candidatura di un esponente riformista, l’ex medico e ministro della salute Masud Pezeshkian, escluso dalle ultime tre consultazioni con argomenti capziosi. Si tratta anche di un tentativo di maquillage politico, di un’apertura strumentale dopo le grandi purghe degli ultimi due anni e il crescente isolamento internazionale del regime. Tanto, secondo tutti i sondaggi, il gran favorito è l’attuale presidente del Parlamento, ex comandante dei Guardiani della rivoluzione islamica ed ex sindaco di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf un fedelissimo di Khamenei. Conservatore di ferro e gran protagonista nella repressione dei movimenti di piazza nati dopo la morte della giovane Masha Amini uccisa dalla polizia morale nell’ottobre 2022, si è guadagnato negli anni la fama di “pragmatico”, relativamente moderato rispetto agli atri due candidati vicini a Khamenei. Il più estremista, esponente della cosiddetta ala dura è Saeed Jalili, ex segretario del consiglio di Sicurezza nazionale, ex capo negoziatore nucleare contrario all’accordo poi siglato con gli Usa di Barack Obama nel 2015, sostiene la necessità che l’Iran si doti di un arsenale atomico per esercitare deterrenza nei confronti dei suoi avversari. L’ultimo candidato filo-regime è Mostafa Pourmohammadi, unico religioso in lizza, già ministro dell’interno, della giustizia e giudice al tribunale di Teheran, nel corso degli anni è stato indicato dalle associazioni di difesa dei diritti umani come tra gli artefici delle famigerate “commissioni della morte” che tra la fine degli anni 80 e l’inizio del 90 portarono all’esecuzione sommaria di migliaia di oppositori.
L’unica incognita di un voto che sembra già scritto saranno i consensi ottenuti dal riformista Pezeshkian che probabilmente riporterà alle urne milioni di elettori ostili al sistema Khamenei ma non avrà la forza per battere Ghalibaf, anche perché diversi dissidenti politici, in primis la premio nobel Shirin Ebadi, liquidano queste elezioni come «una farsa» e continueranno a disertare le urne come hanno fatto negli scorsi anni. Anche la principale associazione di madri di giovani uccisi durante le manifestazioni, hanno invitato tutti gli oppositori del regime a boicottare le urne definite «un circo» per legittimare il potere degli ayatollah. Se è vero che Pezeshkian ha criticato il pugno duro impioegato dalle forze di sicurezza e ha chiesto la dissoluzione della polizia morale, da molti è visto come una foglia di fico messa lì a coprire le vergogne del regime. Con queste premesse la sfida del candidato riformista appare come una missione impossibile, già posizionarsi in seconda posizione e raggiungere il ballottaggio rappresenterebbe una piccola vittoria. Diventare presidente sarebbe addirittura un miracolo.