Il 28 novembre di cinque anni fa veniva assassinato il collega Tahir Elci, presidente del Consiglio dell’Ordine di Diyarbakir, nel Kurdistan turco. Elci era un noto difensore dei diritti umani che più volte aveva fatto condannare la Turchia davanti alla Corte Edu e aveva pubblicato pochi giorni prima della morte un pamphlet sui crimini del governo nella cittadina curda di Cizre. Elci fu ucciso da una pallottola che lo centrò in pieno mentre teneva un comizio a Sur, il centro storico di Diyarbakir. La pallottola è certamente partita dalla pistola di uno dei poliziotti che erano di servizio al suo comizio, durante una sparatoria giustificata dalla presenza di due terroristi che stavano scappando dopo avere aggredito una pattuglia poco lontano. La solita “pallottola vagante” che colpì precisamente e mortalmente Elci mentre le altre decine di pallottole non riuscirono ad attingere i due terroristi in fuga, ben più vicini ai poliziotti.

Fin da subito apparve chiaro che la Procura non voleva fare indagini. Non sequestrò le armi della polizia. Non iscrisse nessuno sul registro degli indagati. Lasciò che si disperdessero tutti gli indizi sul luogo del crimine. Tanto più che due giorni dopo iniziò il coprifuoco per 24 ore al giorno in tutto il centro storico della città, con impossibilità di accesso e di uscita per chiunque: un vero e proprio assedio per tre mesi con bombardamenti, distruzione di case, morti nella popolazione, bimbi compresi.

Ma la famiglia e i colleghi di Elci non hanno smesso di chiedere che le indagini andassero avanti e si giungesse al giudizio. Gli avvocati si riunivano ogni giovedì davanti alla Procura per chiedere giustizia, e la famiglia commissionò una perizia video a una rinomata agenzia inglese indipendente ( che chiunque può vedere on line). La perizia fu terminata l’anno scorso: essa prova oltre ogni dubbio che la sparatoria non ebbe un andamento casuale e che i poliziotti intendevano colpire Elci e non i terroristi che correvano scappando. Sulla base di questa perizia anche la Procura, seppur ritardataria e riluttante, a cinque anni di distanza ha dovuto cedere e formulare un capo di imputazione per omicidio colposo aggravato nei confronti dei tre poliziotti che usarono ( solo loro) armi il giorno dell’assassinio.

Il 20 di ottobre si è svolta la prima udienza e sono state subito scintille. Con la scusa del covid, non è stato ammesso pubblico e sono stati presenti solo alcuni fra i difensori di parte civile, fra cui l’attuale presidente del Coa. I tre imputati hanno chiesto di potere assistere tramite video, cosa non consentita dalla legge, ma la corte ha detto di sì. A questo punto i colleghi di parte civile hanno alzato la voce e il presidente ha fatto entrare in aula la polizia per sgomberarla. Placatesi un poco le acque, i difensori delle parti civili hanno sollevato ricusazione della corte che aveva già dato prova di essere “pregiudicata”.

La ricusazione (che in Turchia è rimessa in primo grado allo stesso giudicante ricusato) naturalmente non è stata accettata. E c’è da giurarci che non la accetterà la corte superiore. Poi la corte ha falciato le prove richieste e ha rinviato il processo al 3 marzo. Già da questo inizio è facile capire come Procura e corte intendono condurre il processo: si discuta solo di omicidio colposo; si rimanga nella vaghezza della responsabilità da addebitare a uno dei tre poliziotti; si sminuisca il valore della perizia inglese. Si arrivi quindi all’assoluzione per uso legittimo delle armi: la stessa norma di stampo autoritario che conosciamo anche noi, dal tempo del fascismo e mai rimossa. Figuriamoci in Turchia.

Resta la figura di Tahir Elci, il simbolo di un modo di intendere la professione di avvocato, messo a tacere dal governo attraverso una montatura creata apposta e che non si è voluto e non si vorrà mai chiarire. Almeno finché durerà l’attuale regime. Ma noi, comunque, seguiremo il processo e denunceremo ogni violazione.