Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore, in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- devessersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nelleditoriale, o punto, ha definito il cortocircuito tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto piano Colao. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile con lepidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nellassalto quotidiano al governo. Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 idee, come infarcite del peggiore lobbismo dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dellEconomia. La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma delleconomista di fiducia, consigliera e quantaltro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi. Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche. A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po spine nei fianchi dei politici.Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in seconda battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito incontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali cera, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica lideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dellorto accompagnando gli ospiti verso casa. Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione tecnica che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dellUniversità Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nellapplicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970. Terminato lincontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc linvito ad eliminare Miglio dallelenco dei consulenti di Piazza del Gesù. Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo organico di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali archiviati con lesperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica programmazione voluta dai socialisti, lallora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva. Ebbene, parlandomene una volta come persona preparatissima, per carità, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, lallora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava ascoltato ma non sempre seguìto perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quantaltro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una guerra civile. Mica male, come paura. Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele Sindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si abbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una sola volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale della Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso. Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di successo Silvio Berlusconi dal tecnico Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.