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Mimmo Lucano
Una condanna a dieci anni e cinque mesi di reclusione: questa la richiesta avanzata dai magistrati d’Appello nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace e principale imputato nel processo Xenia. Una richiesta di poco inferiore a quella stabilita dai giudici del Tribunale di Locri che in primo grado avevano disposto 13 anni e due mesi di carcere. Sono servite più di tre ore ai Pg Fimiani e Giuttari per riannodare il fili del processo al “modello Riace”.
L’unificazione di tutti i reati (sia quelli legati alle ipotesi di peculato sia quello di associazione a delinquere) con il vincolo della continuazione, un paio di prescrizioni per i presunti reati che riguardano la raccolta differenziata e l’emissione delle carte d’identità, l’inutilizzabilità di parte delle intercettazioni finite nel procedimento di primo grado: questi i punti che hanno portato i magistrati d’accusa a chiedere un piccolo “sconto” rispetto alla pesantissima sentenza locrese, andata ben oltre le stesse richieste dei pm che in sede di requisitoria avevano chiesto 7 anni e 11 mesi di carcere per “il curdo”.
Ma nella sostanza, l’impianto della prima sentenza sembra avere retto rispetto alle considerazioni dell’accusa, che più volte ha sottolineato le irregolarità contabili registrate nella gestione dei progetti di accoglienza ai migranti: le case, che non avrebbero rispettato gli standard, i compensi per le manifestazioni degli artisti che avrebbero fatto pubblicità all’intero sistema, l’acquisto del frantoio da destinare ad una cooperativa di immigrati.
Nel meticoloso ed asettico elenco dei presunti reati contestati agli imputati – oltre a Lucano sono 17 le persone finite alla sbarra – quello che però non emerge mai, durante l’udienza, è il senso stesso del modello Riace, sacrificato in aula sull’altare di conti che non tornerebbero e tabelle non rispettate.
«È stata una requisitoria serena e pacata – hanno detto a margine dell’udienza i legali di Lucano, Pisapia e Daqua – che ha condiviso parte delle nostre richieste. Ovviamente non siamo d’accordo con le richieste e le motivazioni avanzate dai Pg. Adesso è il nostro turno e spiegheremo i motivi dell’appello. Speriamo in un esito positivo di questa vicenda perché abbiamo sempre ritenuto che i reati siano inconsistenti» .
Oltre a Lucano, il Pg hanno chiesto la rideterminazione delle pene anche nei confronti degli altri imputati. Fernando Capone (8,10 anni di reclusione), Cosimina Ierinò (8,1), Jerry Tornese (5 anni), Pietro Curiale (4,8), Abeba Abraha Gebremarian (4 mesi con pena sospesa), Giuseppe Luca Ammendolia (2,10), Nicola Auddino, Assan Balde, Oumar Keita (8 mesi con pena sospesa), Anna Maria Maiolo (4,8 anni), Gianfranco Misuraca (4), Salvatore Romeo (4,10), Maria Taverniti (4,4), Lemlem Tesfahun (4,8) e Filmon Tesfalem (8 mesi con pena sospesa). Chiudono le richieste di assoluzione per Cosimo Misuraca e Maurizio Senese.
L’inchiesta Xenia era esplosa nell’ottobre del 2018, con l’arresto di Lucano. Un arresto che in poche ore aveva fatto il giro del mondo. Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio, truffa, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e concussione ( le ultime due ipotesi di reato sono cadute in primo grado): accuse pesantissime che si abbatterono come un meteorite sull’intero “sistema” di accoglienza che aveva portato Riace e il suo modello di integrazione dal basso sulle prime pagine dei giornali di mezzo pianeta.
Accuse frutto di un’indagine della guardia di finanza durata anni e partite da una serie di relazioni ispettive ( e contrastanti tra loro) commissionate dalla Prefettura reggina allora guidata da Michele Di Bari, il Prefetto promosso a capo del dipartimento immigrazione al Viminale e poi costretto a lasciare l’incarico in seguito ad un’indagine sulla moglie. Accuse sempre respinte dallo stesso Lucano al cui fianco, negli anni, si è schierata l’opinione pubblica, scesa in piazza per difendere “il curdo” e il suo modello di accoglienza.