Che cosa può fare l’esecutivo Meloni, quali politiche può mettere in campo la nuova coalizione di destra? Quali vie può intraprendere per cambiare volto al Paese - pardon, alla Nazione - secondo quella che è sempre stata l’intenzione ritualmente dichiarata di ogni nuovo inquilino di Palazzo Chigi?

Meloni condivide quell’ambizione con tutti, ma proprio tutti i presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta. Ma nel caso più inedito dell’intera storia repubblicana, e cioè il primo governo di vera destra guidato da una donna, il libro dei sogni non lo si potrà probabilmente neanche aprire. Il governo parte su un binario stretto, e i rumours che raccontavano come Meloni avrebbe preferito (a differenza di Salvini e Berlusconi) andare a elezioni alla scadenza naturale della legislatura (febbraio 2023) trovano fondamento in un dato oggettivo: per questo autunno- inverno è da tempo previsto un vortice di problematiche.

Meloni si trova - come lei stessa ha detto ieri alle Camere - con « la nave Italia in tempesta». Una guerra alle porte ma che insidia dall’interno una maggioranza che non ha una posizione internazionale condivisa - anche al di là della fermezza della presidente del Consiglio. E soprattutto con fosche previsioni, da poco esplicitate tra l’altro dal Fondo Monetario Internazionale: crescita al lumicino, e una spirale inflazionistica alimentata dagli alti costi dell’energia, che può sfociare in stagflazione. E bloccare l’Azienda Italia, il motore produttivo del Paese. Un quadro che Meloni deve aver messo a fuoco nel passaggio di consegne con Mario Draghi.

In più, si ritrova col piano Pnrr lasciato in eredità da Draghi ma ancora largamente da attuare. E dunque, con miliardi di euro concessi dall’Europa (circa 200) per la spesa strutturale, ma con la spesa corrente bloccata: e cioè anche con cifre insufficienti al sussidio a imprese e famiglie per il caro bollette. Per capirci: la Germania, che non ha come l’Italia un debito pubblico che veleggia verso il 145 per cento del Prodotto Interno Lordo (circa 1.700 miliardi di euro), e gode di forti plusvalenze accumulate negli hanno ha potuto stanziare 200 miliardi. Noi, forse, arriveremo a 10 miliardi.

Dunque la via è stretta, e le politiche del governo necessitate. Le strade possibili sono due: mantenere le promesse fatte all’elettorato, che erano abbastanza vaghe nel programma di coalizione ma che sono state gridate in tutti i comizi: taglio delle tasse, cancellazione della Fornero, «pace fiscale», ovverosia condoni, e via spendendo. Anche se nel discorso di insediamento Meloni è stata cauta, parlando di flat tax solo per una quota di già ricchissime partite Iva (quelle da 100mila euro l’anno) e solo di qualche rimodulazione, tutti sanno che Salvini la pensa diversamente: lui stesso ha parlato in tv di qualcosa che complessivamente somiglia molto a uno shock fiscale. Se la «linea Salvini» prevalesse significherebbe confliggere frontalmente con l’Europa - che da anni ci chiede di limare le tasse sul lavoro - e, data la fase, anche con i mercati.

L’esempio di Liz Truss, la premier britannica dimessasi dopo soli 44 giorni, sta lì a rendere plasticamente la fase: misure liberiste come uno shock fiscale in questa fase terrorizzano i mercati. L’Italia verrebbe impallinata dalle agenzie di rating (che per ora stanno alla finestra) mandando in fibrillazione l’euro. Rendendoci invisi a Bruxelles, e proprio quando la Ue ha in agenda la revisione del famoso Patto di Stabilità. Per farla breve: un copione analogo a quello che nel 2011 vide l’Italia a rischio default, e a rischio di commissariamento della trojka Ue- Bce- Fmi. Come dire che, se seguisse le intenzioni che ha sin qui manifestato Salvini, l’esecutivo Meloni finirebbe o commissariato, o uscirebbe di scena (come fu nel 2011, con le dimissioni di Berlusconi e l’arrivo di Monti).

Dunque, se il governo seguirà il consiglio elargito da Draghi durante il passaggio di consegne «l’Italia non può isolarsi in Europa» - e se quella frase è stata compresa sin nel suo sottotesto, ovvero il bilancio pubblico non lo permette - il governo proseguirà la sua azione. Ma non mantenendo quel che è stato promesso in campagna elettorale.

In sostanza e semplificando ci pare che le strade possibili siano due: mettere in atto le politiche annunciate nelle piazze in campagna elettorale, ponendo a rischio la tenuta del governo e dello stesso Paese. Oppure proseguire, sia pure magari con minimali aggiustamenti, la politica economica impostata da Mario Draghi. In quest’ultimo caso, per reggere e anche per trovare al proprio interno una compattezza d’intenti che non ha, la maggioranza di governo agiterà il Paese con battaglie culturali: gli sbarchi e i migranti, i diritti civili, l’aborto… E, soprattutto, la riforma della Costituzione: il presidenzialismo.