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Innovare il linguaggio televisivo senza rinunciare alle proprie origini produce una più alta qualità nella drammaturgia breve, più autenticamente europea e meno americanizzata. Ricostruzione storica, dialoghi e ambientazioni della narrazione biografica se connessi alla radice comune di originali televisivi e sceneggiati del passato, migliorano l’odierna drammatizzazione seriale.
In M - Il figlio del secolo anche il vecchio porto di Trieste, il San Carlo e il Palazzo Reale di Napoli restituiscono davvero l’Italia degli anni Venti del Novecento, perché le otto puntate della serie evento di Sky tengono in virtuoso equilibrio la forza espressiva del presente e la oreficeria audiovisiva italiana, specie a quella dello scorcio 1968-1985 nel quale L’Odissea di F. Rossi, Schivazappa e M. Bava, A come Andromeda di Cottafavi, il Sandokan di Sergio Sollima, il Gesù di Nazareth di Zeffirelli, il Marco Polo di Montaldo, o il Cristoforo Colombo di Lattuada, riuscirono ad affermarsi internazionalmente per appartenenza letteraria, spazio epico di racconto, investimento produttivo, talento registico, costruzione di scena. Una grande scuola ancora viva.
Di qui il successo di pubblico e critica della coproduzione italo francese che tra i tanti produttori esecutivi annovera anche Pablo Larrain e Paolo Sorrentino, tanto da fare di M - Il figlio del secolo uno dei casi televisivi dell’anno per qualità d’immagine, ritmo e spessore psicologico. Fortunate intuizioni visive riportano alla contemporaneità di Gomorra e The Young Pope, ma l’originalità della serie diretta da Joe Wright, mai distante dai romanzi di Antonio Scurati da cui è tratta, è nel continuo, crudele interrogarsi di un camaleontico Luca Marinelli quando cerca i suoi congiurati tra noi, oltre la macchina da presa; incolpando e tradendo di continuo se stesso, il duce del fascismo sprofonda il pubblico tra i complici di un crimine storico figlio di troppi, diversi colpevoli, costruendo gradualmente il suo attacco al potere. Stefano Bises e Davide Serino sceneggiano il miserabile e il sublime dell’esistenza, rompendo il tabù su Giacomo Matteotti, che Gaetano Amato incarna nella sua parola viva, incubo lucente anche da ucciso per gli assassini di regime.
Wright attinge al cinema russo creando un roboante videoclip techno futurista. Il Mussolini di Marinelli soffre i natali umili e bracca un futuro altoborghese, tradendo il suo credo operaistico. Del tutto rigorosa la ricostruzione, pur romanzata, delle trame nascoste che condussero un oscuro maestro elementare di paese a dirigere un giornale inventandosi capo di una milizia e poi di uno Stato. E l’attualità di M è contaminazione creativa tra fonti storiche e ricostruzione d’ambienti, monologhi deliranti e realismo romagnolo di private fragilità. Suggestivi gli interpreti, di solide basi teatrali: il viscido Cesarino Rossi di Francesco Russo, la Margherita Sarfatti spezzata dal suo sogno di Barbara Chichiarelli, la dolorosa Rachele Mussolini di Benedetta Cimatti; e ancora, la cieca violenza dell’Italo Balbo di Lorenzo Zurzolo, la disfatta del Giovanni Giolitti di Fulvio Falzarano, la viltà del Vittorio Emanuele III di Vincenzo Nemolato, la lealtà del quadrumviro Emilio De Bono di un camaleontico Maurizio Lombardi. M – Il figlio del secolo divora se stesso tra iperrealismo e distopie degne di Trainspotting, sfuggendo alla narrazione malata di chi vorrebbe ritrovare del bene nel fascismo di ieri e oggi, e restituendolo come vero dramma politico e storico, tramite immagini sanguinarie e disturbanti di quotidiano orrore. Il fascismo è aggressione, mistificazione, morte. Lo dice la Storia, la serie lo riafferma.