«Guarda questo, è per l’ambasciatore d’Italia». L’ultimo grido d’aiuto di Mehdi Zare Ashkzari è ripreso in video che circola sul web e sui social: a parlare in camera, in italiano, è il giovane iraniano che ha studiato all’Università di Bologna, morto dopo 20 giorni di coma in seguito alle torture subite in carcere in Iran.

Nel filmato inviato agli amici in Italia, Mehdi mostra i segni del pestaggio appena subito durante una manifestazione a Teheran: è a petto nudo, in mutande, e lungo tutto il corpo riporta profonde lesioni. Ecchimosi viola gli squarciano braccia, gambe e schiena. Ha un occhio nero, e qualche dente mancante. Si direbbero segni di manganellate.

Ma Mehdi è ancora vivo. Parla da un appartamento in cui è riuscito a mettersi in salvo, per documentare quanto gli è successo. Poi è arrivato l’arresto e le torture in carcere, fino al rilascio al quale non è sopravvissuto: una volta liberato è stato trasportato in ospedale, dove è passato dal coma alla morte, a soli 31 anni.

Nel 2015 aveva cominciato a frequentare l’ateneo di Bologna, dove ha studiato farmacia fino al 2017. Dopo la morte della madre era tornato in Iran, senza riuscire più a rientrare in Italia. Poi sono arrivate le proteste, esplose oltre tre mesi fa per la morte di Masha Amini, e Mehdi non si è tirato indietro: è sceso in piazza ogni giorno, fino alla morte.

«C’è una situazione di tale oppressione e minacce nei confronti dei familiari che rendono noto cosa fa il regime iraniano, che mettendo al corrente noi di ciò che era accaduto a Mehdi Zare Ashkzari e facendo circolare informazioni come il video che ora gira, familiari e amici sono in grande rischio. L’invito è alla diplomazia internazionale, e in particolare all'Italia, perché si prendano cura di queste persone che vivono in Iran e raccontano cosa accade», è l’allarme lanciato da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che il primo gennaio ha denunciato la morte di Mehdi. E al nostro paese si rivolge anche l’attivista iraniana Masih Alinejad, che rilanciando il video di Mehdi su Twitter chiede al governo italiano «il ritiro immediato dell’ambasciatore in Iran».

Tra i primi a denunciare la morte di Mehdi anche Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna rilasciato dopo una lunga detenzione preventiva. «Il nuovo anno inizia con questa notizia per darci un avviso sulle violazioni dei diritti umani che si verificano nella regione di Swana e in particolare in Iran - è il commento di Zaki - Unibo ha ora una nuova vittima della libertà di espressione. Purtroppo, questa volta, era troppo tardi per salvarlo. Tutte le mie condoglianze alla sua famiglia e a noi per questa grande perdita». Mentre l’università bolognese ha espresso «sgomento, dolore e indignazione», e ha avviato una serie di iniziative volte a tenere alta l’attenzione sulla situazione iraniana e ad esprimere la vicinanza di tutto l’ateneo a chi sta lottando e soffrendo per la libertà. «L’impegno dell’Alma Mater per i diritti umani e civili è iscritto nel nostro Statuto, che così recita: valore preminente di riferimento per tutta la comunità è il rispetto dei diritti fondamentali della persona, che l'ateneo si impegna a promuovere e a tutelare in ogni circostanza», ha spiegato Giovanni Molari, rettore dell’Università.

Nel frattempo la repressione in Iran non si ferma, e la Corte suprema iraniana oggi ha confermato la condanna a morte per due persone ed un nuovo processo per altre tre nell’ambito del caso dell’uccisione di un membro della milizia Basij durante le manifestazioni contro il regime.

La Corte ha confermato le pene per Mohammad Mahdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, mentre quelle per Hamid Ghare-Hasanlou, Hossein Mohammadi e Reza Aria sono state annullate per “vizi di procedura” ed è stato ordinato un nuovo processo. In primo grado tutti e cinque erano stati condannati a morte per l’uccisione il 3 novembre scorso a Karaj, a ovest di Teheran, di un membro della milizia paramilitare iraniana legata ai Guardiani della rivoluzione. Altri 11 imputati erano stati condannati a lunghe pene detentive, ma anche loro saranno sottoposti a nuovo processo per “errori nell'inchiesta”. Secondo Amnesty International Hamid Ghare-Hasanlou, un medico, e la moglie Farzaneh stavano andando ai funerali di un manifestante ucciso nelle proteste per la morte di Mahsa Amini quando sono finiti “in mezzo al caos” dell’attacco contro il miliziano.