Pensate un  attimo a Matteo Salvini che sotto la calura estiva si interroga sui limiti del proprio gradimento e si lascia scappare quell’espressione:  «Chiedo pieni poteri». Li aveva invocati per via elettorale come suggello di una popolarità inarrestabile. Otto mesi dopo, in una situazione che ricorda in tutto e per tutto l’incubo della guerra, Salvini vede il suo principale avversario di allora, Giuseppe Conte, già all’epoca premier, esercitare sul serio quei pieni poteri. Il paradosso è che a nessuno verrebbe in mente di contestare l’enorme libertà di manovra acquisita ed esercitata dal presidente del Consiglio. Che è sempre lo stesso dai tempi del Papeete e che ha tradotto in atti concreti l’iperbole grossolana dal sen fuggita un anno fa al leader leghista. Conte esercita in tutto e per tutto pieni poteri in una situazione tragica, mai vissuta dall’Italia negli ultimi 75 anni, che richiede assolutamente scelte chiare e rapidissime. Su tale considerazione non sono ammessi equivoci. Ma la logica e il percorso istituzionale seguiti da Giuseppe Conte, fine giurista, sono imprevedibili e invocano un altrettanto rapido chiarimento. Conte anche ieri sera infatti ha prefigurato un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. A breve avremo la conferma ufficiale che la forma normativa scelta è davvero quella racchiusa nella sigla divenuta ormai familiare, Dpcm.  Vi chiederete: come è possibile che non si era mai sentito parlare prima di tale strumento? In realtà di Dpcm ne esistono eccome nel nostro ordinamento. Solo che si tratta di atti legislativi terziari, addirittura. Regolamenti. Emanati certo dalla presidenza del Consiglio dei ministri e quindi rivolti a materie che incrociano la generalità di alcuni interessi o aspetti di particolare rilievo. Ma non si tratta di atti che avrebbero di per se stessi forza di legge, e anche su questo non ci piove. Tutto è reso possibile, nelle ore dell’incubo coronavirus, dal fatto che il primo decreto legge emanato dal governo per fronteggiare l’emergenza aveva previsto in sé che sulla stessa materia, l’emergenza coronovirus appunto, sarebbero stati possibili eventuali successivi decreti del presidente del Consiglio. Ecco il nesso che giustifica tutto: quel decreto legge era il numero 6 del 23 febbraio 2020. Si trattava del provvedimento d’urgenza in cui vennero definite le misure per la zona rossa di allora, ossia i territori della Lombardia e un unico comune veneto,  Vo Euganeo. Poi da lì sono venuti i dpcm. Conte e il governo hanno ritenuto che non ci fosse altro modo. Emanare decreti legge avrebbe richiesto di preventivare una discussione in Parlamento e una conversione. La differenza fra un decreto legge e un dpcm infatti è che il primo dovrà essere discusso in Parlamento e convertito, altrimenti finirà per decadere. Il secondo no, è una diretta emanazione del potere di chi guida il governo. Che però, in tale sua forma non sottoposta controlli, è ovviamente limitatissimo dalla Costituzione. Quel primo decreto del 23 febbraio ha dunque attribuito a Conte poteri mai visti: pieni poteri appunto. Un'opzione legata alla necessità di prevedere strumenti normativi straordinari in un momento che ricorda in tutto e per tutto una guerra. Ma che pure è stata assunta in una cornice formale che mai e poi mai nel nostro ordinamento si era pensato potesse essere orientata a un simile scopo.