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I pogrom del 7 ottobre, oltre a migliaia di vite umane, hanno cancellato anche l’opposizione israeliana? Le immagini dei massacri nei kibbutz e della carneficina di giovani al rave nel deserto del Negev, il rapimento di bambini e neonati, le centinaia di ostaggi, hanno brutalizzato l’opinione pubblica, una tempesta emotiva come mai prima nella storia dello Stato ebraico, che d’un colpo si è scoperto fragile e mortalmente esposto alle rappresaglie dei miliziani di Hamas, mai così efficienti e agguerriti.
In questa atmosfera da apocalisse le profonde divisioni politiche all’interno della società israeliana sembrano improvvisamente scomparse, inghiottite dalla necessità di restare uniti di fronte al nemico. «Distruggeremo Hamas, lo ridurremo a un cumulo di cenere» ha tuonato il premier Netanyau nelle ore successive alle stragi, un sentimento condiviso da molti, anche da chi fino a ieri manifestava contro di lui. Come racconta lo scrittore David Grossman, per nove mesi lui è sceso in piazza ogni sabato assieme a milioni di concittadini per contestare il governo e la sua riforma della giustizia, ma dal 7 ottobre questa prospettiva è diventata impensabile, i lunghi cortei che chiedevano le dimissioni dell’odiato “Bibi” paiono oggi foto d’epoca.
Eppure, malgrado Israele sia in guerra e alla vigilia di un’invasione senza precedenti della Striscia di Gaza con oltre trecentomila riservisti richiamati alle armi, malgrado il clima inevitabile da unità nazionale, gli oppositori di Netanyau non rinunciano a lanciare bordate contro il suo esecutivo estremista che ritengono tra i principali responsabili della crisi, anche a costo di passare per disfattisti o nemici della patria.
Ci vuole fegato per scrivere, come ha fatto il quotidiano Haaretz, che «le politiche di espansione coloniale in Cisgiordania hanno minato la sicurezza di Israele e allo stesso tempo colpito i diritti della popolazione palestinese». Il fallimento del governo, infarcito di ministri nazionalisti e ultrareligiosi, in tal senso è stato totale e questo è un argomento che fa presa in larghi strati della società non solo tra i progressisti di sinistra. Più complicato e meno intuitivo il discorso sui palestinesi, ma basta alzare lo sguardo oltre le tragiche cronache degli ultimi giorni per comprendere come la sicurezza israeliana sia strettamente connessa ai diritti dei loro vicini e che mai ci sarà pace se la questione palestinese non troverà soluzioni.
I pesantissimi bombardamenti dell’esercito su Gaza con almeno tremila civili uccisi, oltre a scuotere la comunità internazionale stanno dimostrando agli stessi israeliani che la strada della vendetta istintiva è un vicolo cieco e, a mano a mano che l’offensiva di Tshaal andrà avanti, il “partito della pace” guadagnerà nuovi sostenitori mentre il residuo credito di empatia che riscuote Israele finirà in fretta.
Gideon Levy, uno dei più importanti giornalisti israeliani ha accusato Netanyahu di agire senza criterio e in modo disumano: «L’assedio totale di 2 milioni di esseri umani e l’evacuazione di 1 milione dalle loro case in un giorno sono inaccettabili in qualsiasi circostanza. Uccidere migliaia di persone, mutilarne decine di migliaia e lasciarle senza nulla non favorirà alcun interesse israeliano, anche se mettiamo da parte le questioni di diritto e moralità. Genererà solo odio e vendetta di un tipo che nemmeno Satana potrebbe inventare, con Hamas o senza di essa».
Pur condividendo il bisogno di farla finita con le milizie di Hamas, Levy chiede al governo di concentrarsi su quell’obiettivo e di fermare i bombardamenti nella Striscia. Una posizione forse minoritaria ma destinata a crescere con il passare delle settimane. Ci sono poi i familiari degli ostaggi i quali osservano come la sacra dottrina di riportare ogni israeliano rapito a casa sano e salvo si stia sgretolando davanti alla furia della risposta militare.
Per la prima volta cittadini ebrei sembrano “sacrificabili” sull’altare della macchina bellica e le decine di parenti in presidio permanente davanti al ministero della Difesa non accetteranno mai di perdere i loro cari senza che lo Stato non faccia nulla per salvarli. Insomma il regolamento di conti tra Nenatnyahu e i suoi avversari è solo rinviato.