Dopo l’uccisione dei leader di Hamas, Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar e del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, con i bombardamenti su vasta scala dell’Iran, i più pesanti subiti dalla Repubblica sciita dai tempi del conflitto contro l’Iraq, la guerra di Benjamin Netanyahu ai «nemici di Israele» entra in una nuova, allarmante fase. È un passaggio che segna un “salto di qualità”: stavolta l’obiettivo di Tel Aviv non è una milizia paramilitare ma uno Stato sovrano. L’operazione “Leone crescente”, condotta con oltre duecento aerei, ha colpito centrali nucleari, basi dei Pasdaran e ha portato all’eliminazione di Hossein Salami, comandante dei Guardiani della Rivoluzione, insieme ad altri membri del vertice militare iraniano tra cui il comandante della Forza Quds Esmail Qaani successore di Qasem Soleimani, il generale ucciso nel 2020 a Baghdad da un bombardamento Usa. Un attacco senza precedenti, che ha trasformato una guerra già strisciante in un conflitto esplicito tra nazioni, rendendo più concreto lo scenario di un’escalation regionale incontrollabile.

La decisione di Netanyahu di estendere la guerra al cuore dell’Iran però non può sorprendere nessuno. È la logica conseguenza di una strategia ampiamente annunciata dal governo ultranazionalista che dirige. Haniyeh e Sinwar e Nasrallah erano dei bersagli dichiarati come lo sono gli ayatollah; eppure il bombardamento dell’Iran rappresenta qualcosa di diverso dai massacri dei civili di Gaza o dallo scontro armato con il Partito di Dio libanese, è l’affermazione manu militari di una dottrina di superiorità strategica che mira a ridefinire gli equilibri geopolitici nel Medio Oriente. Netanyahu non si accontenta più di contenere gli avversari, vuole metterli in ginocchio e, nel caso iraniano, punta apertamente a un cambio di regime. Non a caso nel discorso alla nazione pronunciato dopo la prima ondata di bombardamenti “Bibi” ha invitato la popolazione iraniana a «ribellarsi contro i tiranni». Un appello che lascia il tempo che trova, un po’ come il trash talking della Guida suprema Alì Khamenei che promette «una punizione severissima» per lo Stato ebraico.

Nel frattempo, gli Stati Uniti si sono mossi in equilibrio instabile: il presidente Trump ha ribadito che l’Iran «non avrà mai la bomba atomica», ma ha anche fatto sapere che Washington non è parte attiva nell’operazione israeliana ed è teoricamente ancora disponibile ai colloqui sul nucleare.

Le petromonarchie sunnite del Golfo osservano il tutto con attenzione. Arabia Saudita, Emirati e Qatar temono una destabilizzazione dell’area, ma non piangono certo per la possibile caduta del regime iraniano nonostante dal 2023 Riad e Teheran abbiano riallacciato le relazioni diplomatiche dopo sette anni di gelo. Alcuni analisti suggeriscono che, pur condannando formalmente l’attacco israeliano, Riad e Abu Dhabi vedano nella crisi una ghiotta occasione per ridurre l’influenza iraniana. Tuttavia, l’instabilità non giova agli affari: i prezzi del petrolio sono schizzati alle stelle, le borse mediorientali hanno subito contraccolpi, e il rischio di un’escalation militare nei corridoi energetici del Golfo è tornato a essere concreto.

Colpire direttamente l’Iran significa aggredire il cuore ideologico e materiale dell’“asse della resistenza” sciita. È una sfida aperta non solo al regime, ma a tutta una visione del Medio Oriente fondata sul confronto con l’Occidente, sulla contrapposizione tra l’islam rivoluzionario e l’alleanza tra Israele e le potenze sunnite come si era configurata nei famosi Accordi di Abramo. In questo senso, Netanyahu lancia un messaggio trasversale a Mosca e Pechino, che al contrario vedono in Teheran un alleato utile nel contenere l’influenza americana. C’è poi una dimensione “domestica” che ispira la guerra di Netanyahu: sotto assedio giudiziario e politico, contestato da una parte dell’establishment militare e dei servizi, il premier israeliano sembra cercare nella dimensione bellica un terreno in cui rinsaldare il consenso, marginalizzare le opposizioni e blindare la propria leadership. La campagna militare appare così come un prolungamento della sua battaglia politica interna, un modo per trasformare il conflitto in un referendum permanente sul patriottismo e la sicurezza. Ma la domanda centrale resta: fino a dove è disposto ad arrivare? La storia insegna che guerre nate per rafforzare un governo possono finirne per accelerarne la caduta.

La guerra di Netanyahu all’Iran, insomma, non è più la solita guerra israeliana. È qualcosa di nuovo, di più radicale, di potenzialmente devastante e che cambierà per s