Dovremo abbandonarci tra le braccia dell’intelligenza artificiale per trovare giustizia? No, non nel senso antiumano e spaventoso evocato da un’immagine simile. A rassicurarci è una figura di straordinario prestigio della magistratura e dell’accademia giuridica francese, Antoine Garapon, segretario generale dell’Institut des hautes études sur la Justice. Le sue riflessioni sulla tecnologia applicata al Diritto hannoscandito una delle due conferenze da lui tenute all’università Alma Mater di Bologna lunedì scorso, dedicata al tema del suo ultimo volume, Justice digitale. Nella Scuola superiore di Studi giuridici dell'Ateneo, Garapon è stato accompagnato da due studiosi della stessa Alma Mater, Gaetano Insolera ed Emanuela Fronza. H accettato di approfondire per il Dubbio alcuni degli aspetti del nuovo appassionante oggetto dei suoi studi.

Con l’algoritmo di google si è deciso che debba essere una formula precostituita a indirizzare la nostra conoscenza del mondo. Con l’intelligenza artificiale applicata al diritto, si stabilisce che sia di nuovo una formula precostituita a determinare ciò che è giusto?

La domanda è ben formulata se si intende che la tecnologia digitale permetterà di predire l’evoluzione della giurisprudenza. Ciò che può fare il digitale è scavare a fondo nelle sentenze e analizzare le decisioni al fine di prevedere i grandi orientamenti giurisprudenziali. Di conseguenza, è necessario distinguere tra previsione delle decisioni, che a mio avviso non risulta possibile, previsione degli orientamenti giurisprudenziali, possibile, e infine altri tipi di informazioni, come quelle rivolte solo al giudice e che riguardano la sua propria produzione normativa. Ciò che può dirci la tecnologia digitale si identifica, da un lato, con l’orientamento generale della giurisprudenza e, dall’altro, tramite l’aiuto di start- up specializzate, con la previsione di una decisione che altri cento giudici avrebbero adottato con riferimento al medesimo caso giudiziario. A mio avviso, un computer non potrà mai sostituirsi al giudice nella decisione, tuttavia, potrà arricchirne la riflessione. In effetti, la tecnologia mette a disposizione dei giudici e degli avvocati un nuovo registro di conoscenza, che non si identifica con il diritto, ma che potremmo comunque qualificare come essenzialmente giuridico. In altre parole, poiché la tecnologia digitale disturba il rapporto tra diritto e fatto, possiamo parlare di un fatto giuridico, che identifica il rapporto tra ciò che afferma il diritto e la direzione dei tribunali, il fatto, nonché la loro eventuale scollatura.

Crede che nel sistema giuridico europeo sia legittimo e auspicabile spingersi oltre, e consentire anche che sia il computer a dirimere alcune controversie al posto del giudice? E fino che punto ritiene che tale prospettiva possa essere accettabilmente realizzata?

La tecnologia non potrà mai sostituirsi alla giustizia, perché carattere ontologico di quest’ultima è quello di dialogare con le passioni umane. Queste ultime prendono la forma, innanzitutto, di una aspettativa molto forte di giustizia, che poi altro non è che ciò gli americani chiamano to have one’s day in court, ossia la possibilità di essere ascoltati, unita alla sensazione che “giustizia è stata fatta”. Questo sentimento scaturisce da un evento sociale e la tecnologia digitale non può identificarsi in alcun modo con un fenomeno sociale: non vi è, al suo interno, uno spazio condiviso, non vi è alcun faccia a faccia, non c’è nessuna materialità. La tecnologia digitale potrebbe pertanto essere vissuta come una violenza eccedente: essa sarà cioè ben accolta dalla parte vittoriosa nel processo, che si è vista soddisfatta nelle sue aspettative, mentre sarà percepita come un atto ulteriore di violenza dal soccombente, perché elimina la presenza di un soggetto terzo ed estraneo al rapporto, che funge da intermediario nella risoluzione della controversia.

Di recente in Italia si discute molto sulla possibilità di derogare a quello che da noi viene definito “principio dell’oralità del contraddittorio”. In particolare, una parte consistente della magistratura, e soprattutto l’attuale guida dell’Anm, ritiene auspicabile che l’obbligo di rinnovazione del dibattimento in caso di sostituzione del giudice sia abolito anche per i processi di corruzione. Di fatto tali istanze tendono a un procedimento penale solo “cartaceo”, basato sui documenti anziché sulla formazione della prova nel dibattimento. Tali posizioni ritengono poco importante la possibilità, per il giudice, di ascoltare la viva voce del testimone o dell’imputato, di osservarlo mentre parla, di coglierne le modificazioni che lo stato emotivo produce sul volto della persona. In termini culturali, crede che tale scarnificazione del processo possa aprire la strada alla definitiva disumanizzazione che si produrrebbe con la sostituzione del giudice con il computer?

La questione è molto interessante e ricca di contenuti. Prima osservazione: l’informatica ci fa vivere in tempo reale, nel senso che ci fa credere in un’efficienza massima, perché è un’efficienza collocata all’interno di un mondo completamente formale. Essa comporta un’accelerazione considerevole del tempo, e un’attualità, presentism, che invade la nostra vita. È un cambiamento del nostro rapporto con il mondo e il tempo. Rispetto a questo, è evidente che il ruolo delle istituzioni è quello di eliminare la collera attraverso il passaggio del tempo. Forse però le istituzioni giudiziarie si sono spinte troppo oltre, visti i tempi processuali della giustizia; in tal senso, mi pare che la tecnologia digitale dia la possibilità di avere una migliore efficienza, non nel senso di automaticità, ma di un tempo socialmente e psicologicamente accettabile. La questione della materialità è anch’essa importante, perché il processo è un incontro. Tuttavia, abbiamo due strutture fondamentali, cui corrispondono due tipologie di verità. Quella continentale, della procedura inquisitoria, della forma scritta, che è un cumulo potenzialmente infinito di informazioni, che si sono tradotte in scrittura. La procedura inquisitoria è una procedura scritta, e per tale motivo il tempo processuale è molto lungo e consiste soltanto nel verificare il lavoro che è stato fatto, e dunque scritto, dai giudici precedenti. L’altra tipologia di verità è quella di common law, la quale concentra tutto in un unico momento, dove tutto accade tramite la parola orale e si domanda alla giuria di valutare la credibilità dei testimoni, degli esperti, delle parti, eccetera. Il processo rappresenta un momento essenziale perché, se il giudice del modello inquisitorio ricerca il fatto storico, la procedura di common law riproduce l’accaduto: la giuria non cerca tanto di ricostruire che cosa è avvenuto, ma piuttosto ciò che si sta materializzando davanti ad essa, nel teatro delle prove che vengono prodotte alla sua presenza. In questo senso, la presenza fisica è assolutamente indispensabile. Il sistema inquisitorio, poi, è strettamente legato all’idea di un potere benevolo, che si contrappone al modello di potere arbitrario della procedura accusatoria. Se dobbiamo compiere delle scelte sulla procedura da adottare, a mio avviso è importante che esse siano coerenti. Per ciò che concerne l’umanizzazione, occorre fare attenzione al vero significato della parola. Mi piacerebbe molto che i giudici e gli avvocati francesi fossero più umani ai nostri giorni, ma di quale umanizzazione stiamo parlando? È un dibattito molto importante. Dire che umanizzare significa interessarsi alle emozioni, dimostrare una certa compassione per il destino funesto di chi compare di fronte al giudice, è una versione un po’ leziosa, sdolcinata, banale. La versione forte definisce l’umanizzazione come la possibilità per un giudice e un avvocato di andare oltre la semplice applicazione, fredda e sterile, della legge. Ed è molto importante tenerlo a mente nello studio della tecnologia digitale, poiché quest’ultima riporta il giudice alla mera applicazione della norma.

Secondo un’impostazione culturale che pone la persona al centro del sistema giuridico, l’avvocato è non solo il difensore del cliente che si rivolge a lui per esserne assistito, ma è anche il difensore dei diritti, delle garanzie su cui si fonda l’ordinamento nel suo insieme. La spinta a estendere il campo d’applicazione dell’intelligenza artificiale nella giustizia rischia di essere un modo per soffocare tale ruolo che si ritiene di poter attribuire all’avvocato nel sistema democratico?

Il ruolo dell’informatica è quello di obbligarci a ridefinire tutto ciò che oggi è il processo, tutto ciò che oggi costituisce diritto, tutto ciò che oggi è il ruolo dell’avvocato. Mi pare che gli avvocati stiano vivendo una fase di enormi trasformazioni, molto profonde, perché le loro conoscenze tecniche, che una volta rappresentavano il segno distintivo della professione, oggigiorno possono essere contenute in un computer e facilmente reperibili. Tuttavia, riprendendo l’esempio di un medico oncologo che mi diceva l’altro ieri che la machine, robotica, tecnologia, gli consente di essere un medico migliore, oserei direi che la stessa cosa potrebbe avvenire per un avvocato: egli dovrebbe saper parlare alla gente e dialogare con la tecnologia, saper capire le persone, ma anche interpretare il diritto per adattarlo alle esigenze peculiari del caso concreto. L’avvocato potrebbe avere uno spazio, ma soltanto se possiede due importanti competenze: quella tecnica, perché è necessario dialogare con la tecnologia, e quella sociale, umana, che gli permette di avere più attenzione verso i suoi clienti.

L’istituzione dell’avvocatura italiana, ossia il Consiglio nazionale forense, ha di recente promosso il riconoscimento in Costituzione della “libertà” e della “indipendenza” dell’avvocato, individuato come “presidio di dignità delle persone e strumento della effettività della tutela dei diritti”. Ritiene condivisibile tale modifica costituzionale?

Sia chiaro: ci sono degli avvocati molto competenti e sensibili, ma è importante fare un bilancio dello stato attuale della giustizia per poter avanzare e stare a passo coi tempi. Non conosco il caso italiano, ma in Francia gli avvocati sono molto ansiosi per questa evoluzione e cercano, attraverso la legge, di garantirsi un reddito, facendo sì che la gente sia obbligata a richiedere la loro prestazione. Non sono sicuro che questa strada sia corretta. Sarebbe meglio ripensare il loro ruolo per proporre una nuova offerta di giustizia, che sappia mettersi al servizio della dignità delle persone, il che è poi il fondamento dell’esistenza dello Stato di diritto. Anziché assumere un atteggiamento difensivo nei confronti della tecnologia digitale, dovremmo tentarne uno costruttivo e reinventare il lavoro tenendo in debita considerazione lo sviluppo tecnologico.

( Si ringrazia per l’intervista l’unità italiana del gruppo Mela - Memory Laws in European and Comparative Perspective, composto da Emanuela Fronza, professoressa di Diritto penale internazionale ed europeo presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Alma Mater di Bologna, dal Senior Researcher Michele Caianiello e dai due Young Researcher che hanno materialmente assicurato la traduzione del testo, Paolo Caroli e Marco Bortoluzzi)