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Da qualche mese Francesco Basentini è a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ( Dap). Il magistrato, che ha preso il posto di Santi Consolo, ha rilasciato al Dubbio la sua prima intervista da quando ricopre il nuovo incarico.
Dottor Basentini quali sono le sue priorità?
Gli obiettivi più importanti che vorrei realizzare sono due. Innanzitutto lavorare sulle nuove motivazioni della polizia penitenziaria, di cui bisogna migliorare le condizioni di lavoro oltre che gli organici. E, in maniera altrettanto importante, adoperarsi per migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri, creando nuove possibilità di lavoro e di formazione.
Il sovraffollamento è in aumento e c’è poi il problema delle numerose celle inagibili. Come rimediare a questa situazione?
È un problema strutturale nella misura in cui le strutture carcerarie hanno una capacità recettiva evidentemente non adeguata o sufficiente. È in atto un discorso organico che trae origine dagli esperimenti degli anni passati per la costruzione di nuove carceri. C’era un ex piano carceri - congelato per varie vicissitudini - che prevedeva da un lato la costruzione di un nuovo carcere, ossia quello di Nola che è in fase di realizzazione progettuale, e dall’altro lato la ristrutturazione e ultimazione di molti nuovi reparti all’interno di carceri esistenti. Il ministero della Giustizia ha chiesto al ministero delle Infrastrutture di mettere a disposizione i fondi previsti proprio per quel piano- carceri, accantonati e congelati da tempo, per poterli destinare a vari interventi alle strutture. Ampliare i posti disponibili può aiutare a coprire in parte il fabbisogno. Oltre a questa soluzione organizzativa, esiste una soluzione diplomatica; almeno un terzo della popolazione detentiva è formata da cittadini extracomunitari provenienti soprattutto dal nord Africa, dall’Albania e dalla Romania. Sarebbe importante lavorare sul fronte degli accordi bilaterali con questi Paesi per convincerli o comunque indurli a prendere all’interno dei loro istituti questa consistente fetta di popolazione carceraria. Proprio la cooperazione in materia penitenziaria è stato uno dei temi al centro dell’incontro, a cui ho partecipato qualche giorno fa, fra il ministro Bonafede e la sua omologa albanese Etilda Gjonaj.
Da ottobre inizieranno ad arrivare i braccialetti elettronici che permetteranno ai magistrati di sorveglianza di utilizzarli per i detenuti che sono nella condizione giuridica di essere scarcerati.
Se si parla di misure alternative, la detenzione domiciliare è possibile a determinate condizioni. Nella recente riforma penitenziaria – parzialmente congelata – era prevista la possibilità di accedere agli arresti domiciliari per chi aveva da scontare una pena fino ai quattro anni. Questo avrebbe portato fuori dalle carceri migliaia di detenuti, ma ci sarebbe stato un esodo all’esterno il cui impatto non sarebbe stato particolarmente edificante agli occhi della popolazione. Esistono già, perché già previste, altre concrete soluzioni: ad esempio la costituzione delle celle di sicurezza nei vari uffici – commissariati, caserme – al cui interno andrebbero collocati gli arrestati in flagranza di reato per i quali è possibile fare un direttissimo.
Pochi giorni fa il Dubbio ha realizzato un servizio sul carcere di Parma, evidenziando la criticità relativa alle condizioni di salute di molti detenuti. Quello di Parma è solo un esempio di come spesso il diritto alla salute venga negato in carcere.
Si tratta sicuramente di una nota un po’ critica del nostro sistema penitenziario. L’argomento riceverà sicuramente attenzione nelle valutazioni politiche che andremo a fare. Il dato storico ad oggi è davvero poco confortante perché l’assistenza sanitaria è passata nell’autonomia gestionale delle Regioni che hanno l’obbligo di provvedere al servizio, ma fanno i conti con quello che è il personale, l’organico. Lavoriamo con difficoltà anche sotto un altro aspetto, quello del percorso terapeutico dei detenuti psichiatrici. Le sezioni che dovrebbero ospitarli non sono esistenti in tutti gli istituti di pena.
Sovraffollamento e diritto alla salute molto spesso negato. La sentenza Torreggiani sembra lontana.
La situazione è critica e complessa da gestire. Tuttavia registro da parte di questo governo e in particolare dal ministero della Giustizia una attenzione estremamente mirata e particolarmente sensibile ai problemi che si vivono in carcere. Questo è un dato di fatto molto importante: per la prima volta si vede una forma di intervento e reattività politica rispetto al problema. Facciamo i conti con vari fattori: prima c’era una notevole mancanza di risorse sia umane che finanziarie, spero che questo deficit venga superato attraverso un investimento nel mondo delle carceri. La nota positiva è che sicuramente la sentenza Torreggiani ci ha costretto a rispettare una serie di vincoli, primo tra tutti quello che deriva dal rapporto tra il detenuto e lo spazio da lui fruibile. Questo rapporto è frutto di una valutazione sistematica costante che si fa anche attraverso meccanismi di controllo: al Dipartimento abbiamo un applicativo che ci permette il monitoraggio dello spazio a disposizione per ogni detenuto in ogni singola cella. Se si scende al di sotto dei tre metri quadrati si può intervenire trasferendo il detenuto interessato.
Qual è il suo parere sulla proposta di estendere l’uso del taser anche alla polizia penitenziaria?
Quando si introduce un’arma in una sezione esistono grossi rischi. Cosa accadrebbe se finisse in mano ad un detenuto? Stiamo valutando delle soluzioni alternative al taser, alcune sono state già individuate e le studieremo nella loro fattibilità concreta: riprendere a lavorare sulla formazione della polizia penitenziaria e sui protocolli di intervento operativo, migliorare le capacità di autodifesa degli agenti; stiamo valutando anche quello che accade in altre Paesi, dove all’interno delle carceri ci sono dei gruppi di intervento composti da personale specializzato e dotato di una attrezzatura completamente protetta e realizzata con materiale tale da non arrecare danno al detenuto e soprattutto non consentire al detenuto di aggredire l’agente. In questi casi gli agenti non hanno armi.
Rita Bernardini da Radio Radicale ha lamentato il fatto che il Dap per la prima volta ha negato a una delegazione del Partito Radicale una visita in un carcere, in particolare quello di Taranto con “motivazioni risibili - ossia che non si ravvisano ragioni trattamentali soprattutto sapendo che quello pugliese è un carcere particolarmente sovraffollato”. Bernardini ha dichiarato che questa nuova amministrazione “non opera all’insegna della trasparenza”. Lei come replica?
Mi dispiace che sia stato fatto questo tipo di riflessione. Comunque per legge il diritto incondizionato di visita, che spetta a determinate figure istituzionali, è altro rispetto alla facoltà di visita, che può essere concessa dal Dap anche a soggetti diversi, in particolari condizioni. Gli ex parlamentari non hanno lo stesso diritto dei parlamentari.
Un’altra grande criticità sono i suicidi in carcere.
Si tratta di un fenomeno per certi aspetti incontrollabile. Ribadisco che stiamo facendo il possibile per migliorare la qualità della vita in carcere. Però dovrebbe fare anche notizia il tentato suicidio che viene evitato dall’attività della polizia penitenziaria che ha una incidenza numerica diverse volte superiore a quello che è l’evento suicidiario.
Come giudica la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario?
Quella riforma non andava nella direzione giusta; più che una riforma era uno svuota- carceri. Quello che bisogna fare è migliorare la condizione di vita del detenuto nelle carceri, trovargli possibilità di lavoro attraverso dei protocolli che abbiamo già firmato con Roma e che a breve concretizzeremo con Milano e Palermo. L’obiettivo non è quello di dare semplicemente una liberazione o una libertà incondizionata e trasversale per tutti quanti i detenuti indistintamente, perché altrimenti sarebbe uno svuota- carceri. Invece la misura alternativa deve premiare il detenuto meritevole.
Come risolvere il problema dell’affettività in carcere?
Si sta pensando alla possibilità di ricorrere a tecnologie digitali per ampliare le modalità di colloqui tra il detenuto e la famiglia lontana dal luogo di detenzione in condizioni e modalità anche temporali diverse da quelle previste dalla norma, così da aumentare il numero di colloqui.
Il 41 bis rispetta ancora l’obiettivo con il quale è nato o si è trasformato in uno strumento di punizione?
Se è quello strumento giuridico che ci permette di azzerare o comunque di ridurre notevolmente i rischi legati a particolari soggetti di clan mafiosi o a coloro che fanno propaganda a fini di proselitismo islamico esso allora è uno strumento eccezionale e la sua applicazione non deve essere vista come un eccesso.
Però che senso ha avuto far rimanere Bernardo Provenzano in regime di 41bis quando le sue condizioni di salute erano critiche, era privo di coscienza e non riusciva a comunicare con i familiari?
Ci dovremmo scandalizzare se a Provenzano non fossero state date le cure e le terapie necessarie.