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This photo released by Mizan News Agency, shows the site of clashes in a ward of Evin prison, in Tehran, Iran, Sunday, Oct. 16, 2022. A towering blaze at the prison housing political prisoners and anti-government activists killed four inmates, the country's judiciary said. (Koosha Mahshid Falahi/Mizan News Agency via AP)
A ogni regime dispotico si può associare una prigione simbolo delle sue atrocità: la Cambogia di Pol Pot aveva l’ex liceo Tuol Sleng, la Libia di Gheddafi Abu Salim, la Siria degli Assad il “macello umano” di Saydnaya, l’Iraq di Saddam Abu Ghraib (poi riciclata dai marine americani), il Cile di Pinochet Villa Grimaldi. Il cuore nero dell’Iran degli ayatollah e dei pasdaran batte invece nel carcere di Evin, che prende il nome dall’omonimo quartiere della capitale Teheran, alle pendici dei monti Alborz.
Fu lo Scià Mohammad Reza Pahlavi a volerne la costruzione negli anni 70, quando il vecchio carcere di Qasr sembrava ormai inadatto a contenere la crescente opposizione politica. Il progetto era “moderno”: isolamento acustico, celle sotterranee, un’area speciale per gli interrogatori dell'intelligence. Il regime khomeinista ne mantiene ne l’ossatura e le logiche, sostituendo solo gli obiettivi da colpire: intellettuali, dissidenti, giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani. Nei mesi successivi alla Rivoluzione Evin si riempie di prigionieri politici e subito dopo dei vecchi alleati degli islamisti, in particolare i comunisti del Tudeh che in un paio d’anni vengono messi fuorilegge per via del loro «materialismo ateo» incompatibile con i precetti dell’Islam.
Nell’estate del 1988, mentre in Iran si celebrava la fine della devastante guerra con l’Iraq, dietro i cancelli di Evin si consuma la prima ondata di massacri: migliaia di prigionieri politici vengono giustiziati senza processo, principalmente membri del PMOI/Mujahedin-e Khalq, marxisti, minoranze religiose, donne e giovani. Secondo Amnesy international i morti sono oltre cinquemila. Testimoni oculari ricordano l’orrore e le vittime del 1988, i prigionieri trascinati nei “corridoi della morte” uno dopo l’altro, Parvin Haeri, 29 anni, fisico giustiziato dopo sette anni di tortura; Razieh Ayatollahzadeh Shirazi, anche lei una scienziata, impiccata in mezzo ai suoi compagni.
Tra i membri delle commissioni che dopo un interrogatorio farsa che dura pochi minuti dispongono l’esecuzione dei detenuti spicca il nome dell’ex presidente Ebrahim Raisi deceduto in un incidente d’elicottero lo scorso anno, all’epoca vice procuratore di Theran e in seguito ministro dela Giustizia. Il regime tenta di cancellare ogni traccia: nessun avviso ai familiari, nessun certificato di morte, viene fatto divieto assoluto di commemorazione.
Nel tempo, Evin ha accolto ogni nuova ondata di dissenso: gli studenti del 1999, i riformisti e blogger del 2009 dopo le proteste del Movimento Verde, i giornalisti e gli attivisti per i diritti civili e delle donne nel decennio successivo, fino ai giovanissimi di “Donna, vita e libertà” arrestati nelle rivolte del 2022, seguite all’uccisione di Mahsa Amini da parte della polizia morale.
Come emerge dai racconti dei detenuti e delle detenute lo schema punitivo di Evin è molto elaborato, si tratta di un luogo razionale, gelido, i corridoi sono puliti, il dolore è distribuito secondo criteri specifici: ci sono le celle di isolamento, chiamate “tomba”; ci sono le sezioni amministrate direttamente dalla magistratura, quelle dai Pasdaran (i più temuti), e poi quelle dedicate ai prigionieri stranieri accusati di spionaggio. Come racconta la scrittrice iraniana di origine curda Zarah Ghahramani in Forced to Betrayal: My Escape from the Mullahs, «Evin è una prigione costruita per farti credere che sia tutto normale, mentre ti tolgono pezzo dopo pezzo l’identità».
Le donne soprattutto denunciano l’orrore della “tortura”: isolamento totale in celle insonorizzate e bianche, senza luce, senza suoni, vestiti bianchi, cibo insapore, il rumore di chiavi, la porta che si apre nel cuore della notte, gli occhi bendati mentre si viene interrogati per ore, con la voce dell’aguzzino che scivola sottile come un gas, sulla falsariga delle tecniche di deprivazione sensoriale sperimentate dagli Usa di Bush jr a Guantanamo.
Raramente accadono episodi di violenza diretta o abusi fisici, anche se nell’ondata repressiva del 2023 le detenute hanno denunciato decine di casi di violenza sessuale. L’avvocata e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi arrestata per aver contestato la pena di morte ha raccolto le loro voci in White Torture (2022), un libro che raccoglie testimonianze di 14 donne – tra cui Mohammadi stessa – detenute nella prigione di Teheran.
Un’altra importante testimone dell’universo carcerario di Evin è Nasrin Sotoudeh, avvocata dei diritti umani, già condannata a 38 anni e 148 frustate per «incitamento alla prostituzione e alla corruzione» ha difeso decine di donne che si erano tolte il velo in pubblico e minorenni condannati a morte; sono 15 anni che Sotoudeh entra ed esce dalla prigione resistendo alla macchina della repressione tra scioperi della fame e una grave malattia cardiaca.
Per quanto possa sembrare paradossale, per molti prigionieri Evin è stato anche un luogo di formazione, in cui hanno imparato a conoscersi, a resistere, a eludere la sorveglianza con stratagemmi continui, ad acquisire coscienza politica costruendo una memoria collettiva che senza alcun dubbio sopravviverà al regime che li ha perseguitati.