Il Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia”, presieduto dal professor Adolfo Scalfati (ordinario di Procedura penale nell’Università di Roma Tor Vergata), intende prendere posizione sul contenuto del d. l. 31 ottobre 2022, n. 162 disciplinante, inter alia, il tormentato istituto dell’ergastolo ostativo. È bene precisare, in ogni caso, che il provvedimento legislativo riguarda la preclusione a godere di benefici penitenziari anche da parte di taluni soggetti condannati a una pena temporanea.

L’intervento del governo mirava a congelare la prevista pronuncia della Corte costituzionale - fenomeno puntualmente verificatosi il 9 novembre 2022 - sul nucleo essenziale della questione e, cioè, la legittimità del divieto assoluto per taluni detenuti non collaboranti di ottenere benefici penitenziari, aspetto tuttavia, come si dirà, tutt’altro che risolto dal d. l. n. 162 del 2022.

Venendo ai contenuti, allarma anzitutto il perdurante ampliamento del divieto verso i condannati per reati contro la PA: prosegue quella odiosa assimilazione, già apparsa nel recente passato, tra tali delitti e quelli di mafia e terrorismo, malgrado le differenze strutturali e criminologiche tra le due categorie di fatti. Dubbi di pari portata emergono in ordine all’operatività in pejus estesa ai condannati per illeciti diversi da quelli di criminalità organizzata, ma legati a questi ultimi da una connessione teleologica accertabile persino dal giudice dell’esecuzione.

In linea di fondo, l’intervento governativo sembra diretto a trasformare il divieto assoluto di applicare benefici penitenziari a (taluni) detenuti non collaboranti in una presunzione superabile di non concedibilità; idea di per sé non cattiva se il congegno normativo fosse capace di conseguire lo scopo. Invece, solleva notevoli perplessità la previsione di un onere, in capo al condannato che voglia conseguire benefici penitenziari, di «alleg[are] elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile».

La previsione di nuovo conio si atteggia alla stregua di una vera e propria probatio diabolica che rischia di negare in radice un diritto astrattamente introdotto. Già dal tenore letterale dell’innesto normativo – prolisso e carico di aggettivi –, viene da pensare che molto difficilmente il condannato riuscirà a dimostrare tutti gli elementi ivi contenuti. La prognosi pessimistica è avvalorata dalla necessità per l’interessato di fornire la prova “negativa” non soltanto di fatti che si presumono come storicamente esistenti (i collegamenti con la criminalità organizzata), ma anche di mere situazioni di pericolo circa l’avverarsi di fatti futuri (il ripristino di tali collegamenti).

L’onere probatorio imposto al condannato, peraltro, si presenta insostenibile in relazione al requisito della interruzione dei collegamenti con il “contesto” nel quale il reato è stato commesso: la proposizione normativa è talmente sfumata da prestarsi a facili dinieghi ogni qual volta l’interessato lasci fuori, dall’ambito della prova negativa richiesta, porzioni di realtà sociale, lavorativa, familiare o territoriale, suscettibili di assumere rilevanza secondo le imperscrutabili valutazioni socio- criminologiche del giudice. Peraltro, ulteriori riserve, anche sul terreno costituzionale e convenzionale, emergono sulla soppressione del richiamo alla collaborazione impossibile e alla quella oggettivamente irrilevante.

Da segnalare infine l’ampio ricorso ai pareri della magistratura inquirente in grado di influire ab externo sulle scelte del giudice di sorveglianza. Si prevede, infatti, che il parere vada richiesto al pm presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, ossia ad un organo intervenuto in tempi assai lontani da quelli in cui si tratta di valutare il superamento dell’ostatività e asservito ad un’ottica del tutto divergente dalla rieducazione del condannato. Considerando le predette criticità, si auspica che il dibattito sotteso alla conversione in legge del dl. 162 produca effetti correttivi sulla disciplina, soprattutto, nell’ottica di sganciare i condannati per reati contro la pubblica amministrazione da quelli per delitti di mafia o terrorismo e di operare un’effettiva metamorfosi del divieto assoluto di concedere benefici in una preclusione relativa realisticamente superabile. (*Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia”)