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Nessun contatto con gli organizzatori del viaggio, nessuna mansione da svolgere sul battello scassato e pieno di quasi trecento disperati in fuga dalla Libia che attraversava il Mediterraneo fino alle coste della Calabria, nessun collegamento diretto con il gruppo a capo dell’ennesimo viaggio della speranza: Ahmed Albahlawan non era uno scafista ma solo un ragazzino di 17 anni in fuga.
Un ragazzino senza un soldo, scappato a seguito del padre per cercare di costruirsi un futuro diverso da quello garantito dal regime libico. Una storia di quasi “normalità” per molti degli scafisti (veri e presunti) che finiscono nelle mani della giustizia italiana e che è venuta fuori solo in seguito al processo d’Appello che ha ridato la libertà al giovane, dopo una carcerazione preventiva che durava da quasi due anni.
La storia del giovane Ahmed non è altro che l’ennesima conferma di come gli scafisti (veri e presunti) siano in assoluto l’anello più debole della intricata catena criminale che da decenni si occupa di trasbordare in Italia migliaia di disperati dalle coste del nord Africa e da quelle della Turchia. Un anello così debole che spesso, per finirci strozzati, è sufficiente passare qualche provvista tra i compagni di viaggio, anche se non si ha accesso alla cambusa.
Il giovane Ahmed era ancora minorenne quando a metà del mese di marzo del 2023 si imbarcò su un vecchio peschereccio in partenza dalle coste libiche con destinazione Europa. Era in fuga assieme al padre, entrambi senza i soldi necessari per pagarsi il passaggio fino alle coste italiane (passaggio che costa, in media, tra i 5mila e gli 8mila euro a persona). Per superare l’ostacolo economico che sembrava insormontabile, il padre del ragazzo (che ha patteggiato in Tribunale una pena a tre anni di reclusione) si accordò con chi stava caricando quel vecchio peschereccio come una scatola di sardine: l’uomo – che non ha mai pilotato una barca in vita sua – accettò di controllare il pilota automatico dell’imbarcazione, settato con la rotta da seguire dagli organizzatori prima della partenza, in cambio di un passaggio per lui e per suo figlio. Quasi un passaggio “per utilità” che ha portato però il ragazzo in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Diventato maggiorenne durante la traversata dalle coste della Libia, Ahmed è stato giudicato come un adulto e, dopo la sentenza del tribunale di Locri, condannato alla pena di quattro anni e due mesi di reclusione e ad una multa mostre di 3 milioni di euro.
Ad incastrarlo le testimonianze, piuttosto contraddittorie, di appena quattro migranti su un totale di 295 passeggeri che lo individuano come l’uomo che, in alcune occasioni, si era occupato di distribuire qualche razione di cibo sulla nave. Il processo di primo grado con rito immediato disposto dal Tribunale di Locri ha seguito l’ormai consueto iter e si è concluso con la pesante condanna per il diciottenne, ennesimo “scafista” condannato sulla rotta delle migrazioni.
È solo grazie all’appello dell’avvocato Giancarlo Liberati che la storia di Ahmed ha preso un’altra piega. Durante il processo dinnanzi ai giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, è venuta fuori un’altra storia. A partire dalle parole di Rasha Aishemey, giovane medica egiziana in fuga e unica donna presente sul barcone durante quel viaggio. La testimonianza della donna era stata acquisita a processo grazie all’esame probatorio con il quale aveva riconosciuto Ahmed tra i quattro uomini identificati come scafisti. Ma durante la sua deposizione nel processo d’Appello sono venuti fuori alcuni elementi che non erano stati presi in esami davanti al primo giudice.
Aishemey ha spiegato infatti in tribunale che solo quattro erano state le foto che le erano state sottoposte per il riconoscimento dei sospettati. Guarda caso proprio le foto dei quattro migranti che erano stati individuati come possibili scafisti. Tra loro anche quella di Ahmed. A completare il quadro poi, la giovane dottoressa aveva spiegato, rispondendo alle domande dell’avvocato Liberati, di come la sua testimonianza fosse stata in qualche modo “veicolata”, sia dagli altri tre migranti accusatori, sia dei mediatori culturali che si occupavano della traduzione che, quando le mostrarono le foto le dissero, stando a quanto ha poi riferito, «se non dici che gli altri tre sono stati loro a guidare questa barca ti mettono a te in carcere».
Durante l’esame poi la giovane donna aveva specificato che Ahmed non era stato l’unico che lei, dalla sua posizione privilegiata – in quanto unica donna, aveva fatto il viaggio separata dagli altri migranti – aveva visto distribuire acqua e cibo durante la traversata. Testimonianza che ha contribuito a cambiare la storia futura di quel diciottenne in fuga che ha passato gli ultimi due anni dietro le sbarre con sulle spalle l’accusa di essere un trafficante di uomini e che ora, dopo la sentenza dei giorni scorsi, è tornato un uomo libero. Una decisione che, in attesa delle motivazioni, potrebbe segnare un precedente importante per i migranti colpevoli di avere passato una bottiglia d’acqua ad un compagno di traversata.