«Il processo a Elaheh Mohammadi è andato bene. La data della prossima sessione sarà annunciata dal tribunale». Con una scarna dichiarazione, rilasciata all'agenzia ILNA, l'avvocato Shahabeddin Mirlohi ha fatto sapere che la persecuzione contro la reporter iraniana va avanti. Una corte infatti si è riunita lunedì a Teheran a porte chiuse, una prima udienza del procedimento che dovrà giudicare la giornalista che si trova in carcere, nella famigerata prigione per detenuti politici di Evin, unicamente per aver svolto il suo lavoro.

Elahe Mohammadi ha 35 anni ed è redattrice del quotidiano Hammihan, è stata arrestata il 29 settembre dopo essersi recata nella città natale di Mahsa Amini, a Saqez, nel Kurdistan iraniano. Stava seguendo come corrispondente il funerale della 22enne curda riportando le notizie delle manifestazioni, represse nel sangue, che si stavano svolgendo all indomani delle esequie.

L'accusa e di aver attentato alla sicurezza nazionale in collusione con potenze ostili, seminando discordia nel paese attraverso la copertura informativa della morte della giovane Amini. Le autorità iraniane l'hanno imputata per essere una presunta spia della Cia. Un reato chiaramente motivato politicamente che serve come monito a tutti coloro che sono scesi in piazza dopo la fine della ragazza. Quest'ultima è deceduta mentre era nelle mani della polizia morale il 13 settembre 2022 perché non indossava in maniera consona il tradizionale hijab, il velo imposto alle donne. La notizia del decesso ha sollevato un vento di protesta senza precedenti tra la popolazione con manifestazioni contro il potere durate per diversi mesi.

Ma quello contro Mohammadi non è il solo processo in corso, la magistratura iraniana ha comunicato che ieri è iniziato anche il procedimento a carico di Niloofar Hamedi, del quotidiano Sharq. I reati che le vengono contestati sono gli stessi della collega, aver fatto sapere al mondo che la morte di Amini non era assolutamente un fatto accidentale provocato da un malore.

Hamedi infatti si trova dietro le sbarre per una foto, pubblicata su twitter, un'immagine divenuta virale che ritraeva i due genitori di Mahsa Amini abbracciati, stroncati dal dolore dopo la notizia della morte, in un corridoio vuoto dell'ospedale di Kasra, a Teheran. Tre giorni dopo la pubblicazione della foto uomini dei servizi segreti hanno fatto irruzione nella sua abitazione portandola via.

L'Iran ha ignorato le ripetute richieste delle organizzazioni che si occupano di diritti umani affinché venisse celebrato un processo pubblico per le due giornaliste, una richiesta che è stata palesemente ignorata, aggravata dal fatto che i due procedimenti sono svolti separatamente. Il pericolo è che vengano comminate pene, che prevedono anche la morte, al chiuso di un'aula senza possibilità di informazione. Ciò rispecchia lo stato della giustizia (con condanne a morte eseguite dopo lunghi periodi di detenzione in penitenziari semi segreti e l'impossibilità per gli imputati di essere rappresentati da un avvocato, fino ad arrivare a vere e proprie torture e confessioni estorte) e della libertà di stampa in Iran.

Non a caso l'ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières ha rilevato che censura e arresti stanno diventando sempre di più la regola e l'Iran ora si trova in 177 esima posizione su 18 paesi di una poco lusinghiera classifica che certifica la repressione della libera informazione. Esiste poi un altro elemento che riguarda i processi attuali, le accusate sono ambedue giornaliste. Se da un lato si tratta della testimonianza che le donne sono il vero motore della rivolta e del cambiamento voluto dalla società iraniana, dall'altro appare chiaro il tentativo dei leader religiosi di perseguirle.

Da quando è scoppiata la rivolta contro il regime i giornalisti arrestati sono stati 72, 25 sono ancora detenuti, la maggior parte donne. Durante le proteste del 2o19 erano state solo 4. Basta citare ad esempio il caso di Nazila Maroofian che, come le due colleghe, stava indagando sulla morte di Mahsa Amini. Condannata a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena, senza processo, per la solita accusa di propaganda contro il sistema e diffusione di notizie false, ha trascorso ben 71 giorni in prigione. Il suo lavoro è stato importantissimo, è l'autrice dell'intervista al padre di Mahsa nella quale luomo ha rivelato che la ragazza curda non soffriva di alcuna malattia come invece sostenevano le autorità.