"So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai rubato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato, incurante delle regole del mercantilismo e delle prospettive del salario minimo". Comincia così "Lo schiavista" di Paul Beatty, il vincitore del Man Booker Prize 2016. E' una satira sulla razza e la giustizia sociale, pubblicata in Italia da Fazi Editore con la traduzione di Silvia Castoldi (Collana Le Strade, pag. 384, euro 18.50)."Eppure eccomi qui - si legge nel romanzo - nelle cupe sale della Corte Suprema degli Stati Uniti D'America, con l'auto, quasi per ironia della sorte, parcheggiata in divieto di sosta su Constitution Avenue, le mani ammanettate dietro la schiena, il diritto di restare in silenzio che mi ha detto addio da un bel pezzo; seduto su una sedia dall'imbottitura spessa che, proprio come questo paese, non è affatto comoda come sembra".Nato alla periferia di Los Angeles, il protagonista è rassegnato al destino infame di un nero della lower-middle-class. Cresciuto da un padre single, strano sociologo, ha trascorso l'infanzia prestandosi come soggetto per una serie di improbabili esperimenti sulla razza: studi pionieristici di portata epocale, che certamente, prima o poi, avrebbero risolto i problemi economici della famiglia. Ma quando il padre viene ucciso dalla polizia in una sparatoria, l'unico suo lascito è il conto del funerale low cost. Le umiliazioni per lui si moltiplicano: la gentrificazione dilaga e il suo sobborgo, fonte di grande imbarazzo per la California, sparisce dalle carte geografiche. Lui reagisce: dopo aver arruolato il più famoso tra i suoi vicini - Hominy Jenkins, protagonista della vecchia serie tv "Simpatiche canaglie", ormai caduto in disgrazia - si decide con una determinazione da folle ultima spiaggia a ripristinare la schiavitù e la segregazione razziale nel ghetto. Idea grazie alla quale finisce davanti alla Corte Suprema.Questo il giudizio di Amanda Foreman, presidente della giuria del Man Booker Prize, sul libro di Paul Beatty: «Raggiunge il centro della società americana contemporanea con feroce umorismo, un'ironia tagliente che si può trovare nelle opere di Jonathan Swift o Mark Twain».Questa invece Washington vista con gli occhi del nero che si appresta a sedersi davanti alla Corte Suprema: "Nelle intenzioni dei fondatori, Washington D. C., con le sue ampie strade, le rotonde sbalorditive, le statue di marmo, le colonne doriche e le grandi cupole, avrebbe dovuto somigliare all'antica Roma (se le vie dell'antica Roma fossero state piene di neri senzatetto, cani antiterrorismo, autobus per turisti e ciliegi in fiore). Ieri pomeriggio, come un etiope coi sandali ai piedi proveniente dalle più oscure e remote profondità delle giungle di Los Angeles, mi sono avventurato fuori dall'albergo e mi sono unito allo hajj dei bifolchi in jeans colmi di patriottismo che sfilavano davanti ai monumenti storici dell'impero. Ho contemplato con timore reverenziale il Lincoln Memorial. Se Abe l'onesto tornasse in vita e riuscisse in qualche modo a sollevare dal trono i suoi ossuti sette metri e passa di corporatura, cosa direbbe? Cosa farebbe? Ballerebbe la break dance? Lancerebbe monetine contro il bordo del marciapiede? Leggerebbe i giornali e scoprirebbe che l'Unione da lui salvata si è trasformata in una plutocrazia disfunzionale, che il popolo da lui liberato è diventato schiavo del ritmo, del rap e dei prestiti predatori, e che al giorno d'oggi le sue capacità sarebbero più adatte a un campo di baseball che alla Casa Bianca? ".