Il ronzio dei droni torna ad infestare i cieli d’Europa. Nella notte tra mercoledì e giovedì uno sciame di veicoli senza pilota è stato avvistato in Danimarca nei pressi degli aeroporti di Aalborg, Esbjerg, Sønderborg e della base militare di Skrydstrup, costringendo le autorità a bloccare nuovamente il traffico aereo per diverse ore comportando la cancellazione di centinaia di voli. Dopo essere stati avvistati, i droni si sono allontanati e sono spariti nel nulla. L’incursione, la seconda in Danimarca da lunedì, giunge a seguito di quelle avvenute in Romania e Polonia nelle scorse settimane.
Nella mattinata di ieri invece un altro drone è stato rilevato nell’area dell’aeroporto di Oslo e successivamente sequestrato, in questo caso è stato fermato l’operatore, un cittadino straniero la cui nazionalità non è stata indicata, di circa cinquant’anni.
Gli avvistamenti di droni potrebbero essere azioni inserite nella cornice della guerra ibrida condotta dalla Russia tramite sabotaggi, come il taglio dei cavi sottomarini tra Svezia e Lettonia a gennaio, cyberattacchi, che hanno colpito l’Italia lo scorso febbraio, e interferenze nelle elezioni, come accaduto in Romania a dicembre.
Le recenti incursioni di droni e jet nello spazio aereo Nato hanno sollevato nuovi interrogativi sulle capacità di difesa dei Paesi europei e soprattutto su come gli Stati stanno spendendo, e intendono spendere, i fondi annunciati per il riarmo.
«Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto». Come dimostrato da Clint Eastwood a Gianmaria Volontè in Per un pugno di dollari la grandezza dell’arma non determina per forza l’esito di un duello. La frase del celebre film di Sergio Leone ben si adatta a un’attualità in cui i conflitti armati stanno subendo una rapida e profonda trasformazione. I droni, piccoli, economici e non sempre facili da rilevare, hanno dimostrato di poter essere ben più insidiosi di grossi e costosi missili.
A fine luglio l’emittente russa Zvezda, controllata dal ministero della Difesa, ha mandato in onda un servizio girato all’interno di un grande stabilimento, operativo dal 2023, per la produzione su larga scala di droni a Yelabuga, nella regione russa del Tatarstan. Qui si producono i Geran-2, un modello di drone basato sugli Shahed-136 di fabbricazione iraniana, con miglioramenti apportati a seguito del largo utilizzo fatto sul campo ucraino. I droni sono programmati per seguire rotte fisse prestabilite e colpire obiettivi predefiniti. Il costo di produzione per unità, grazie anche al fatto di poter acquistare energia e materie prime prodotte in Russia al prezzo di costo, si aggira tra i 20mila e i 50mila dollari e possono essere lanciati da veicoli pick-up modificati. Se confrontato con i costi di produzione e operativi dei sistemi di difesa convenzionali il dato indica come sia diventato sempre meno costoso sferrare attacchi aerei, o marittimi, mentre per respingerli i costi rimangono molto alti. Basti pensare che il prezzo di una singola batteria Patriot supera il miliardo di dollari, circa 400 milioni per il sistema e 690 per la batteria di missili. Per esempio quando i 19 droni hanno violato lo spazio aereo polacco, i Paesi Nato hanno schierato jet da milioni di dollari per far fronte a una minaccia dal valore economico inferiore al milione.
Ragione per la quale la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, lo scorso 10 settembre ha annunciato che l’Europa costruirà «un muro anti-droni sul confine orientale» composto a sua volta da droni, che vedrà coinvolti Estonia, Lettonia, Lettonia, Finlandia, Polonia, Romania e Bulgaria. Per farlo l’Unione Europea dovrebbe fare affidamento sull’industria bellica ucraina, sviluppatasi rapidamente a partire dall’invasione russa del febbraio 2022. Come scritto da Federico Fubini sul Corriere della Sera, l’Ucraina è passata dagli zero droni prodotti nel 2021 a 2.2 milioni di droni prodotti nel 2024, 3.5 nel 2025 e con una proiezione che si aggira tra i 6 e i 7 milioni di unità prodotte il prossimo anno. Le campagne ucraine negli ultimi tre anni sono diventate un enorme laboratorio a cielo aperto di ricerca e sviluppo di nuove armi e sistemi di difesa. Anche le procedure di acquisto sono mutate molto. Buona parte degli acquisti militari ucraini, continua Fubini, non sono più prerogativa del comando centrale dell’esercito o del ministero della Difesa, il che permette una linea d’approvvigionamento più rapida e pronta a rispondere prontamente alle esigenze dei soldati sul campo. L’opposto del modello italiano ed europeo con grandi gare d’appalto e consegne che avvengono a distanza di anni, e da cui i Paesi europei potrebbero prendere spunto per snellire e velocizzare le procedure. Un altro aspetto da rivedere, in ottica anche della tanto invocata difesa comune europea, sarebbe la cooperazione tra gli Stati membri. Come riportato da Politico la Germania starebbe cercando un partner, Svezia e Regno Unito sono i papabili, con cui sostituire la Francia nel progetto da 100 miliardi di dollari per lo sviluppo di un jet da combattimento di ultima generazione, che andrebbe a sostituire i Rafale e gli Eurofighter Typhoon entro il 2040. I due Paesi sono arrivati ai ferri corti in quanto la Francia avrebbe chiesto di avere un ruolo di maggior rilievo rivendicando la leadership del progetto, portando la Germania a decidere di proseguire da sola o a trovare altri soggetti che possano subentrare.