Non credo sia solo o soprattutto una questione di carattere o di sistema nervoso, che Mario Draghi ha dimostrato in tutta la sua carriera di avere solidissimo, traendone vantaggi superiori a quelli di recente attribuitigli da certi critici per avere compiuto a Roma gli studi liceali in un istituto gestito dai gesuiti. Di cui non a caso furono allievi un bel po’ di coetanei destinati anch’essi al successo, per quanto non tutti presunti “figli di papà”. Così il solito Marco Travaglio ha recentemente definito il presidente del Consiglio non essendosi evidentemente accorto, scorgendone la biografia, che egli era orfano di padre già all’età di 15 anni e di madre all’età di 19. Pertanto portò avanti i suoi studi e tutto il resto che seguì, nella concezione sbrigativa del direttore del Fatto Quotidiano, solo come “nipote di zia” Andreina, sorella del genitore.

Il guaio in qualche modo suppletivo è stato che per liquidare Draghi come “figlio di papà” che “capisce soltanto di finanza” per il resto “non sapendone un cazzo”, testuale, Travaglio ha scelto una manifestazione politica dei “liberi e uguali”, affiancato dall’imbarazzato ministro della Salute Roberto Speranza. Che deve a un tale presunto incompetente, a dir poco, la conferma al suo posto in tempi di pandemia, dopo l’esperienza nel secondo governo di Giuseppe Conte, e la resistenza a tutti, e non pochi, tentativi di disarcionamento compiuti, a torto o a ragione, dai due Mattei della maggioranza di cui tornerò a scrivere più avanti: Salvini e Renzi.

Dei nervi saldi di Draghi c’è una immagine icastica del 2015, quando l’allora presidente della Banca Centrale Europea, sorpreso a Francoforte dalla irruzione di contestatori durante una conferenza stampa, reagì con gli occhi stranulati e le sole braccia protese in avanti mentre una dimostrante saltava sul tavolo per lanciargli addosso quelli che poi si sarebbero rivelati solo coriandoli. Eppure la sua intervista al Tg1 sulla situazione in Afghanistan dopo la partenza dei contingenti militari alleati e il ritorno dei telebani ha sorpreso anche me, che lo immaginavo a Ferragosto con le mani fra i capelli a leggere i dispacci da Kabul. E ciò mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si godeva il mare nel Salentino col governatore pugliese Michele Emiliano, l’ex ministro Francesco Boccia, entrambi del Pd, mogli o fidanzate.

Anziché lasciarsi andare come la generalità dei suoi colleghi in Europa e altrove allo sconforto e persino alla disperazione per gli eventi afghani, recriminando contro gli Stati Uniti e la loro precipitosa decisione di lasciare un Paese a lungo occupato militarmente dando l’impressione di fuggire e tradire la fiducia riposta nell’Occidente dalle popolazioni ancora minacciate dai talebani, Draghi ha preferito solidarizzare praticamente con gli alleati d’oltre Oceano anche in questo passaggio difficilissimo. Egli si è richiamato anche ai morti italiani in quelle terre lontane, e ai loro familiari che li piangono ancora, per sottolinearne un “eroismo” per niente vanificato dal clima di resa e di fuga in cui è apparsa finire una guerra di vent’anni. Che, stando ad alcuni critici, avrebbe dovuto o non cominciare per niente o durare ancora tanto da abbattere il primato della storica guerra dei trent’anni, in cui fu dilaniata l’Europa tra il 1618 e il 1648.

Alla tentazione di strapparsi le vesti, battersi il petto e vergognarsi delle scelte compiute, derubricandole tutte a fatali errori, Draghi ha preferito opporre la difesa delle cose fatte laggìù, destinate a rimanere radicate nella “società afghana”, ben più forse di quanto in quella stessa società si ritenga in questi giorni di paura o sconforto. D’altronde, gli stessi talebani hanno sinora tenuto più a tranquillizzare che a spaventare, sino ad essere apparsi a Travaglio - sempre lui- dei travestiti da “democristiani”, secondo il titolo di prima pagina del suo giornale. E’ un po’ come quello che è accaduto nel MoVimento 5 Stelle in Italia quando i grillini sono rimasti al governo anche con Draghi, con la Lega, e col partito di Silvio Berlusconi, scambiati perciò per democristiani travestiti, o quasi, dagli integralisti tipo Alessandro Di Battista.

Scrivevo all’inizio, a proposito della linea scelta da Draghi di fronte alla vicenda afghana, che non è solo o soprattutto una questione di carattere o di sistema nervoso. E’ una questione tutta politica. Draghi si è confermato anche in questo un politico più raffinato e al tempo stesso più coraggioso di tanti che vantano una professionalità politica conseguita in chissà quale università specializzata e garantita da chissà quali e quante referenze.

Anziché strapparsi le vesti davanti alla paura gridata da chi è già fuggito dall’Afghanistan e da chi aspira solo a fuggire, il presidente del Consiglio ha scommesso sulla volontà e sulla capacità dell’Unione Europea, di tutto l’Occidente, del G7, del G20 e di ogni altra postazione utile di fronteggiare anche questa crisi e di garantire uno sviluppo e una soluzione pacifica di eventuali nuovi conflitti.

Di fronte a tanta fermezza, ripeto, tutta politica e per niente tecnica, come ancora molti si ostinano a considerare il livello d’azione di Draghi, se ne faranno una ragione anche i due Mattei accennati prima: il Salvini che ha già alzato le sue barricate contro gli arrivi in Italia dall’Afghanistan e il Renzi che le ha alzate contro i talebani insediatasi nel Palazzo presidenziale di Kabul, abbandonato dal presidente Ghani in fuga con tanti soldi da non avere potuto riempirne l’areo. Sono le stesse barricate opposte da Renzi nel 2018 ai grillini usciti vincenti, o quasi, dalle urne e smontate l’anno dopo per sostituire i leghisti nel secondo governo Conte.