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Qualche sera fa è andato in onda il secondo confronto televisivo tra la democratica Stacey Abrams e il repubblicano Brian Kemp che si affrontano per la carica di governatore della Georgia. Se vincesse la Abrams sarebbe la prima donna nera a diventare governatore in uno Stato americano, mentre se la spunta Kemp continuerà la striscia vincente repubblicana in Georgia che dura dal 2002.
La prima questione, posta da un giornalista, alla Abrams riguardava una foto del 1992, ripescata pochi giorni fa, in cui la Abrams appare sui gradini del parlamento statale mentre brucia una bandiera della Georgia. A quel tempo, nella bandiera dello Stato era inclusa il vessillo di guerra confederato – una decisione che era stata approvata negli anni Cinquanta da una legislatura apertamente segregazionista. Da allora, la bandiera della Georgia è cambiata. E la Abrams ha spiegato che «ventisei anni fa, matricola di college, ero turbata dalla separazione razziale che quel simbolo rappresentava. Presi parte, come altri georgiani, a una manifestazione pacifica di protesta. Dieci anni dopo, quel simbolo fu rimosso e lo stesso Kemp votò al Senato dello Stato perché accadesse».
Poi s’è parlato di riforma sanitaria ( la Abrams è per una estensione del Medicaid obamiano, mentre Kemp è per ridurne o cancellarne gli effetti) e, soprattutto, della scarnificazione delle liste elettorali che, secondo la Abrams, Kemp sta operando selettivamente – come altri suoi colleghi – per ridurre la partecipazione al voto. Kemp, come segretario di Stato della Georgia, ha fatto passare una legge per cui se la registrazione nei collegi elettorali è anche lievemente diversa dai documenti anagrafici di identità, allora vieni cancellato. Dice che lo fa per evitare che al voto partecipino gli immigrati clandestini, che è una curiosa motivazione. La realtà è che in Georgia, come altrove, a fare le spese di questa “pulizia” sono soprattutto gli elettori afroamericani: nel caso specifico, tra gli elettori cancellati in Georgia il 73 percento è afro- americano.
Può spiazzare il fatto che a tenere banco nel dibattito televisivo sia la questione della bandiera confederata, ma non vanno dimenticati gli scontri di Charlottesville, ago- sto 2017, quando un ventenne neonazista si lanciò con la propria auto su un gruppo di manifestanti antirazzisti giunti a Charlottesville proprio per contrastare il corteo dei suprematisti bianchi, organizzato per protestare contro la rimozione della statua del generale Robert Lee, leader dell’esercito confederato; ci furono diversi feriti e una 32enne morì schiacciata dall’auto. Allora, Trump twittò invitando TUTTI a non odiarsi – il che suonò come se antirazzisti e suprematisti fossero messi sullo stesso piano. Recentemente, proprio durante il suo tour elettorale per le midterm, è tornato sulla questione, in Ohio.
Robert E. Lee era un grande generale, ha detto Trump. E vinceva tutte le battaglie e era diventato un incubo per Lincoln. Allora, Lincoln chiamò i suoi generali, tutta l’élite di West Point e disse loro che voleva mettere a capo di tutto Ulysses Grant. E quei generali però gli obiettarono che Grant aveva mostrato chiari segni di alcolismo durante la guerra con il Messico. E allora Lincoln disse che a lui non importava niente che Grant avesse problemi con l’alcol, ne avrebbe voluto sei, di generali come lui, e che comunque il suo uomo era Grant. E così Grant vinse la guerra. E lui era un figlio dell’Ohio. C’è in questa “storiella” molto della retorica comunicativa di Trump: Grant raccontato come uno a cui l’élite guarda con ostilità, per spirito di casta, omettendo però di dire che lo stesso Grant veniva da West Point; e poi c’è la storia dell’alcolismo, che ricorda molto la questione di Brett Kavanaugh e della sua controversa nomina alla Corte Suprema, accusato dalla professoressa Christine Ford di avere provato a abusare di lei, ubriaco perso durante una serata ai tempi del liceo. Trump, come Lincoln, non ha badato a queste cose – il suo uomo era Kavanaugh, e Kavanaugh è stato. La drammatizzazione della nomina di Kavanaugh sembra avere compattato il fronte repubblicano, soprattutto quella destra religiosa, cattolica e protestante, che vede in lui, giudice alla Corte Suprema, un sicuro argine a ogni legislazione che continui a mettere in discussione i cardini della famiglia e del genere ( aborto, gay, transgender) ma anche una possibile leva per ribaltare i diritti acquisiti. E è un “pezzo” di società che vota in modo disciplinato.
C’è una piccola “leggenda” da sfatare, che il maschio bianco operaio abbia votato massicciamente per Trump: in realtà, il 78 percento delle fasce più povere non ha votato, nel 2016; e dove c’era una forte tradizione democratica e sindacale, come in Michigan, in molti distretti operai Trump non è andato oltre il 30 percento ( anche se ha preso lo Stato per soli diecimila voti). Va ricordato che Hillary Clinton raccolse quasi tre milioni di voti in più di Trump: 65.844.594, ovvero il 48,2 percento, contro 62.979.616 voti, il 46,1 percento. Prese però solo 232 grandi elettori ( ogni Stato ha un numero di grandi elettori, e sono loro che eleggono il presidente) contro i 306 di Trump – una sproporzione tra voto popolare e voto indiretto più che evidente. Le quasi 500 contee che votarono Hillary Clinton nel 2016 producono il 64 percento del prodotto interno lordo del Paese, contro il 36 percento delle quasi 2600 contee di Trump ( contee spesso poco popolose). È questa la spaccatura vera dentro gli Stati uniti. E in questa spaccatura tra metropoli e città e stati popolosi e multietnici da una parte e America “profonda” dall’altra, pesò non poco la reazione al primo presidente nero, Barack Obama.
È una spaccatura su cui Trump sta tornando, approfondendola, proprio in questi giorni. In Texas, per dare una mano al suo ex rivale delle primarie 2016 Ted Cruz, partito con largo margine di vantaggio nella conquista di un seggio da senatore rispetto al rivale democratico Beto O’Rourke e ora in affanno, Trump ha strillato in un rally: « You know what I am? I’m a nationalist ». E mentre la folla acclamava: «I democratici radicali vogliono portare gli orologi indietro. Ripristinare la regola dei globalisti corrotti e assetati di potere. Sai cos’è un globalista, giusto? Un globalista è una persona che vuole che il globo stia bene, e non si preoccupa più di tanto del nostro paese. E sai una cosa? Non possiamo permettercelo».
Che cosa intenda per “nazionalismo”, Trump lo ha mostrato sin dall’inizio della sua presidenza, a esempio stracciando il TPP, Il Partenariato Trans- Pacifico, un progetto di regolamentazione e di investimenti regionali nell’area del Pacifico e asiatica, a cui Trump ha dichiarato di preferire una serie di accordi bilaterali con i vari paesi della regione, a cominciare dai dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio in terra statunitense. Ma così è stato per il NAFTA, l’accordo con il Canada e il Messico, che ha rischiato di saltare e che è stato notevolmente “ridimensionato”. Così è stato per il nucleare dell’Iran, per l’accordo sul clima di Parigi, per la guerra dei dazi con la Cina ( si parla di qualcosa intorno ai 300 miliardi di dollari – e non è finita, perché nel mirino c’è il renminbi, la moneta cinese).
Così è stato per la Nato, quando accusò i paesi europei di non contribuire a sufficienza e minacciando di ritirare i contributi americani. Così è stato – e è cosa recentissima – per l’Inf, l’accordo sui missili a medio raggio, quello che fu definito “storico” per la firma di Reagan e Gorbacev, e da cui Trump ha ritirato gli Usa accusando la Russia di violarlo. La dottrina di Trump – e del Pentagono – si chiama Nuclear Posture Review e prevede lo sviluppo e l’estensione di testate nucleari di potenza ridotta per effettuare “attacchi chirurgici” senza che questo implichi l’esplosione della guerra totale. Un azzardo – ma il nemico ora è la Cina. E forse anche la Russia.
Solo che un azzardo di questo genere pesa tremendamente su tutti. Su questo globo qui.